Tu, passato crudele
Ligabue dipinse un quadro grande come mezza cartolina, intitolato “Le rondini sul filo”… In bilico tra salvezza e baratro, tra pace e tormento: così ci si trova quando si ama veramente. Difficile mantenere l’equilibrio: per chi soffre di gelosia retrospettiva, poi, è quasi impossibile. Il passato della donna amata diventa il presente dell’amante, una selva minacciosa e buia, popolata di fantasmi e di immagini dolorose, il terreno nel quale il seme dell’ossessione si posa e inesorabilmente mette radici, e cresce, come un cancro che divori ogni possibilità di pace. Perché il passato non ritorna! Ciò che è stato è intoccabile, è Storia, è nel mito, e ci guarda da laggiù col ghigno beffardo di chi sa di essere al riparo, in vantaggio. Ma piuttosto che rimanere a tormentarsi con indizi ed elementi approssimativi, il narratore decide di immergersi nelle acque senza ritorno del passato di lei, di ricostruire minuziosamente, dolorosamente le vicende dei suoi antichi amanti, attraverso vere e proprie indagini documentarie: ogni lettera, appunto, biglietto di cinema appartenente al passato diventa una tessera da aggiungere al mosaico. Egli è conscio dell’inutilità della sua impresa, e del pericolo che la sua stessa mente corre; decide tuttavia il proprio male, nell’illusione di potere sopportare meglio il passato una volta conosciutolo appieno.
L’autore – narratore considera le donne esseri superiori, che però spesso commettono l’errore di concedersi a chi non le merita, di far loro l’offerta suprema: il proprio corpo. In questo modo ogni bacio, ogni centimetro di pelle solo sfiorato da un altro è qualcosa tolto all’amante attuale: ora “Mic”, il Migliore, il definitivo vorrebbe indietro quei momenti che gli sono stati rubati, gli appartengono. Idolatra del corpo femminile, egli vede in ogni altro uomo un nemico e un competitore: retaggi ancestrali questi, di quando, ancora bestie (o solamente più di adesso) noi uomini lottavamo per una femmina a morsi e zampate.
L’indagine procede, nuovi abissi si spalancano sotto i piedi del narratore; le maledizioni, i rituali magici, gli psicofarmaci, niente è di aiuto, non c’è limite al tormento, nessun fondo da toccare per poi risalire: ed egli se ne rende conto, quando afferma che dopo una vita di sforzi e rinunce per tenere sé stesso in alto, nel sublime, per non cadere nel fango dell’esistenza, si trova ora a consumare la propria intelligenza per delle piccolezze, dei particolari del passato: i più scabrosi, anche i più squallidi. Questo accade quando dal passato della sua divina emerge la presenza di un individuo così immeritevole, così disgustoso da far sparire ogni altro amante. L’odio che investe quest’uomo è così feroce da apparire perfino impietoso: ed elevare a mortale nemico un così misero figuro è un’ennesima sconfitta inferta dal passato, contro cui niente è efficace. Il dolore per ciò che non può essere modificato, per ciò che non si è potuto ostacolare e che è stato e sarà per sempre, si trasforma in odio: rivolto verso la volgarità di certi uomini, contro la loro immonda auto – soddisfazione, la loro “cazzonaggine”; i pochi uomini meritevoli che camminano su questa terra devono subire tale ingiustizia suprema, cosmica; una donna che si concede a un uomo immeritevole condannerà il suo futuro degno amore a dovere vivere l’eterno oltraggio di sapere che un altro, e che altro! ha goduto del corpo e dell’anima della propria amata. Chi non merita non riceva niente: la meritocrazia del narratore è implacabile.
L’ossessione verso l’individuo in questione si trasforma in nevrosi, e poi in qualcosa di più complesso, in bilico tra nevrosi e psicosi, uno stato border-line: una rondine sul filo, come fu Ligabue. Meno che a ogni altra cosa si può sperare di sfuggire a sé stessi.
Fin dalle prime pagine, risulta chiaro che non ci sarà scampo, non solo per il narratore: quale consolazione possiamo sperare di ottenere contro un passato che si cristallizza e che si staglia su di noi perfetto, assoluto, irraggiungibile? Chi può disincastonarlo dal muro del nostro tormento, della nostra lenta esecuzione? Questo lungo, doloroso monologo di Michele Mari appare come una straziante, condivisibilissima protesta contro la crudeltà del tempo, contro la meschinità della vita, contro i tradimenti dell’esistenza.
Il linguaggio passa di continuo da picchi di erudizione ad abissi di volgarità: come se l’autore avesse deciso, una volta costretto a scendere nel fango della vita, di insozzarsene per bene. L’andamento della frase è ipnotico, continuamente interrotto da puntini di sospensione; lo stile è colloquiale, alla Céline, ma nello stesso tempo ricercato e arcaicizzante.
Il diario di un’ ossessione, forse, non poteva essere scritto che così.
A cura di Mario Bonaldi
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