L’onda infranta
Andare a vedere questo film è come andare per la prima volta a Parigi. Una vita sognando di godersi un caffè sulle terrazze della Rive Gauche, e poi la delusione.
Ovvero: cinque euro per un expresso: robusto, ed efficace come una camomilla Milupa.
Ma andiamo per gradi.
Claude Chabrol presenta una cronaca di corruzione politica e finanziaria. Una messa in scena delle cospirazioni che si nascondono dietro ai traffici di denaro che coinvolgono il sistema-stato francese.
La P.M. (Isabelle Huppert) scoperchia uno scomodo vaso di pandora, e mentre è sulle tracce di alcuni manager senza scrupoli e politici compiacenti, nella sua vita privata un tragico avvenimento cambia le prospettive del suo lavoro. E quando il potere cambia di mano anche l’integerrima protagonista ne subisce il fascino.
La storia si sviluppa su due piani: la condanna del perverso mondo degli affari e la vita privata della protagonista, costretta a scegliere tra il benessere personale e il bene per la società.
Purtroppo, entrambe le vie vengono percorse senza fervore. Soprattutto per la discutibile scelta del regista di dare centralità alla narrazione relegando a un ruolo secondario i personaggi che, quasi ridotti a comparse, si passano il testimone dell’intreccio.
Questo è ciò che rende più difficile la fruizione del film da parte del publico. Infatti, per quanto poco ci si possa intendere di recitazione, si è abituati a pensare che un attore sia tanto più bravo quante più emozioni sia capace di trasmettere. Evidentemente Chabrol non è però di questo parere. Proviamo allora a pensare il contrario. Come si fa per i geni del jazz, dei quali bisogna ascoltare le note che “non suonano”. Eppure un concerto jazz non manca di sensazionali virtuosismi, mentre molti di questi attori sembrano concentrati solo nel “non suonare”.
Inoltre il maestro della Nouvelle Vague sceglie un tema tanto trattato da risultare quasi estinto. Dai telegiornali di tutto il mondo a numerose sceneggiature di Hollywood si raccontano intrighi ben più fitti che nel tempo hanno reso il pubblico abituato scandali ben più gravi di questo.
Con il passare dei fotogrammi la storia si appesantisce, i dialoghi diventano poco credibili, e la pigrizia della macchina da presa rende lo spettatore emotivamente distante.
Questo è un elemento familiare agli amanti di Chabrol, ma mentre nelle opere che hanno ispirato la “nuova onda” del cinema francese la sua novità creativa era motore di rottura e innovazione ora sembra diventare autoreferenziale e anacronistica. In poche parole: noiosa.
In sostanza, da un lato La commedia del Potere non tiene conto della drammaticità autentica e terribile delle vicende umane e dall’altro lato l’autore sembra a digiuno di nuove tecniche narrative.
L’attenzione del regista è diretta, come nella maggior parte delle sue opere, alle contraddizioni della classe borghese, e alla deprecabilità delle azioni compiute dai personaggi dei salotti “bene” di Parigi.
Eppure, anche la denuncia sociale viene svilita da qualche particolare un pò troppo evidente. Se, ancora una volta, Chabrol si scaglia contro i clientelismi della società capitalista, basta dare uno sguardo ai titoli di testa per accorgersi che, nella troupe, si contano quattro persone con lo stesso cognome: il suo.
Nell’opera di Chabrol questo non rappresenta altro che un piccolo passo falso. Un capitolo poco riuscito in un’opera immensa e fondametale per la cinematografia europea. Speriamo solo che l’autore ci dia presto la possibilità di “rifarci la bocca”.
Il Voto: quattro. Quello che avevo in matematica. Quello che brucia di più. Perchè, un pò avevi studiato. Perchè, a saperlo, potevi uscire con Eleonora, che almeno con lei qualche cosa di buono si conclude sempre. Perchè un quattro vuol dire che non sei tonto, ma solo che hai fatto male il tuo lavoro.
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