F.U.R. – Freaks Under the Roof
Una foresta di simboli, una stradina nel bosco dell’individuale sensibilità, lastricata di riferimenti e citazioni cinematografiche: dai Freaks di Tod Browning a La Bella e la Bestia di Cocteau, passando attraverso Alice nel paese della meraviglie. Un’idea bella e genuina, nata dal romanzo di Patricia Bosworth, omaggio all’opera di un’artista contemporanea coraggiosa e innovativa: un film poco coraggioso, invece, e di fatto non innovativo, ma non privo della capacità di gettar luce sui mondi che aspira rappresentare.
In primis, quello interiore di una donna instabile e irrequieta che entra in contatto con la propria forte e scomodissima vocazione artistica; il mondo esteriore di una casalinga americana degli anni cinquanta, con gli obblighi e le convenzioni che tale ruolo comportava; il mondo sommerso dei diversi, tutti i diversi, quelli con deformità fisiche e quelli con devianze mentali. Quelli strani, i nani, i gemelli siamesi, gli uomini-lupo, i travestiti, i giganti e le puttane. Quelli strani, i nudisti, gli omosessuali, i senzatetto. Visti da vicino, respirati, assorbiti e fotografati da Diane Arbus: visti da lontano nel film di Shainberg, regista dell’indipendente e apprezzato Secretary (id., 2002). Accennati, forse più per pudore che per timore, ma comunque non prorompenti sullo schermo, non invadenti la pellicola, che si concentra sul contatto tra quel mondo e l’occhio della Arbus, sul percorso sensoriale e spirituale dell’artista newyorkese, la quale, indossato l’abito azzurro della curiosità, novella Alice, sale al piano di sopra e apre una porticina che non potrà essere richiusa più. Oltre la porta, il primo dei suoi mostri, un uomo affetto da ipertricosi, un Downey jr di cui vediamo solo gli occhi, metafora di un tipo speciale di umanità che sa vedere oltre, e che chiede di essere guardata senza pregiudizi.
La sceneggiatura offre ottimi trampolini di lancio che vengono scarsamente utilizzati in fase di regia: a una prima parte piuttosto disturbante, che semina indizi come farebbe un noir (maschere mostruose, tubature intasate di lunghi peli scuri, chiavi misteriose) e mostra inquadrature efficaci come l’ipotetica soggettiva di Lionel da dentro il citofono, ne segue una seconda più sfilacciata, più morbida dove l’inquietudine dovrebbe invece salire e innervare le immagini. La Kidman è comunque credibile, e offre alla vera Diane Arbus una dolcezza sotterranea che in qualche modo, forse, le sarebbe piaciuta.
Curiosità
Nel film non viene mostrato nessuno dei celebri scatti di Diane Arbus perché i detentori dei diritti l’hanno vietato.
A cura di Antiniska Pozzi
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