Romania: niente sogno americano
Il cinema rumeno, del passato e del presente, è poco conosciuto, poco veicolato anche nei festival più di nicchia; una cinematografia a tratti snobbata, misconosciuta, considerata la sorella minore delle più importanti e feconde poetiche cinematografiche degli altri paesi dell’est europeo, come ad esempio Polonia o Repubblica Ceca. Da un po’ di anni comunque anche il piccolo (e povero) cinema rumeno sembra iniziare a trovare riconoscimenti nei maggiori festival internazionali e, di conseguenza, una maggiore visibilità nei mercati che iniziano a distribuirne le pellicole. Al festival di Cannes del 2006 è stato proprio Corneliu Porumboiu con il suo A est di Bucarest a vincere la Camera d’or per il miglior esordio alla regia. Un piccolo film, realizzato con un budget ridotto all’osso, ma un’inventiva fresca, tanta voglia di raccontare e un grande entusiasmo di espressione.
Una commedia dolce amara che spesso scavalca i confini dell’assurdo e del grottesco, prendendo probabilmente le mosse dai predecessori più noti del cinema rumeno: il regista Mircea Daneliuc, che proprio del tocco leggero ha fatto il suo tratto distintivo, e Lucian Pintilie (anche se forse il Italia il più noto regista rumeno rimane Radu Mihaileanu per il suo Train de vie – id., 1998). Porumboiu, che nel 1989 era adolescente, si interroga su ciò che avvenne quel giorno, su quelle che erano le speranze e mostra, con amarezza ma anche volontà di reazione, quella che è la Romania di oggi: ancora senza sole, ancora con i suoi palazzi scrostati e grigi, ancora con la neve che in poco tempo diventa melma, ancora con gli studi televisivi fatiscenti. E la Storia ci viene mostrata attraverso tre storie individuali, tre personaggi (interpretati da tre formidabili attori, esordienti al cinema e presi in prestito dal teatro): la transizione dal realismo socialista al sogno americano ha realmente creato profondi paradossi nel paese e le tre figure (un professore statale ubriacone, un ex Babbo Batale e un improvvisato giornalista) sembrano stigmatizzare proprio questa incapacità di capire ancora cosa realmente sia avvenuto, quale strada il paese abbia preso o debba prendere, quali i fallimenti e quali le conquiste.
Una telecamera sempre in movimento, che con velocità e senza timore si avvicina e si allontana dai volti dei protagonisti; una fotografia melmosa, che vira poco, mai allontanandosi dal bianco neve e soprattutto dal grigio. Un silenzio assoluto: non c’è praticamente musica nel film e tutta la parte sonora è affidata ai dialoghi, spesso intelligenti e divertenti, e proprio al silenzio, a quelle parole non dette. Dei vuoti, di comprensione, che forse quando verranno colmati si potranno fare musica.
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