Così lontana, così viCina
L’inizio del viaggio, per lo spettatore e per il protagonista, è sotto la pioggia, in un piano sequenza di efficace desolazione travestita dalla quotidianità dell’esistenza. Piove, piove sulla fabbrica che fu, sugli ultimi operai in fila, sull’ostinazione del manutentore Vincenzo Buonavolontà (come a dire che il destino non assegna mai nomi a caso). Poi una foto di gruppo, uno scatto per segnare un passaggio di consegne tra dirigenze, forse anche tra civiltà. La Cina compra i nostri scarti e offre loro una nuova vita, all’interno di un sistema economico che è metaforicamente un gigantesco potente altoforno.
Perché il protagonista parta per la Cina a rintracciare lo stabilimento siderurgico in questione resta qualcosa di misterioso: quella della nuova centralina da consegnare al nuovo proprietario cinese è una motivazione piuttosto debole e poco verosimile. Ciononostante Vincenzo parte, e senza volerlo intraprende un viaggio attraverso e dentro la Cina, affiancato dall’interprete Liu Hua, in qualche modo vittima del suo Paese, anima gentile dal sorriso raro ma prezioso.
Non si può dire che sia un film sulla Cina, ma certo dalle immagini emerge la presenza di una nazione lontana, difficile da comprendere nelle sue componenti sociali e politiche, slanciata in avanti spesso senza consapevolezza, soprattutto ancora incapace di considerare l’esistenza e l’esigenza del singolo. Ma il senso della distanza, della distanza culturale e spirituale, è tutto quel che è lecito sentire: «La Cina non me la immaginavo così», dice Vincenzo. Liu Hua ribatte: «Che ne sai tu della Cina?». Intanto la macchina da presa ci porta nelle città, nei villaggi, sulle chiatte lungo rive interminabili, nei grattacieli da ottomila persone stipate in appartamenti come formiche, nelle acciaierie e sui camion con intorno il nulla: restano immagini buttate lì, assaggi timidi quasi, resta l’impossibilità di capire, forse la paura di farlo. Reciproca: sull’ennesimo pullman Vincenzo dorme e un ragazzo domanda a Liu Hua da dove venga. E’ italiano, risponde lei. «Gli italiani sono iracheni?», chiede lui. Lontano, vicino… parametri difficili da assegnare ai popoli e alle culture, ma vediamo tutte le barriere e pesa il suono di una lingua diversa e incomprensibile.
Passa attraverso i singoli uomini, ancora una volta, la possibilità di comprendere, di essere indulgenti e provare amore, la possibilità di aggiungere la stella mancante, dopo il partito, la giustizia, la solidarietà, la pazienza e l’onestà. Qual è la stella mancante? Forse un po’ di coraggio, o qualcosa di indefinibile che manca anche a questo film ben diretto, ben recitato e negli intenti onesto. Arriva il finale conciliatore, ma noi siamo ancora lì in fila, sotto la pioggia.
Curiosità
Il film è stato girato tra Maggio e Luglio 2005 a Shanghai, Wuhan, Chongqing, Yinchuan, Baotou, Mongolia interna e Genova, ed è liberamente ispirato al romanzo La dismissione di Ermanno Rea. Sergio Castelletto ha vinto il Premio Francesco Pasinetti per il miglior interprete maschile alla 63esima Mostra Intenazionale d’arte cinematografica di Venezia.
A cura di Antiniska Pozzi
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