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Paternalismi d’Occidente

Paternalismi d’Occidente

The new colonialism
Passati i secoli delle grandi scoperte, dei Conquistadores e delle rotte mercantili attraverso gli oceani, delle malattie esportate e dei fucili contro lance di legno, il mondo occidentale, sfruttati i paesi ora battezzati “in via di sviluppo”, è passato a un colonialismo che parte dal corpo per giungere alla corruzione delle anime. Quale migliore esempio, in questo senso, di Haiti? Una dittatura, quella della famiglia Duvalier, durata decenni e patrocinata dagli Usa, condizioni precarie e violazioni continue dei diritti umani, un mercato, quello sessuale, ben fotografato nella sua squallida atrocità mascherata da svago dall’ottimo Laurent Cantet, già autore di prove più che convincenti come lo splendido A tempo pieno (L’emploi du temps, 2001). Eppure, qualcosa pare non funzionare nell’ingranaggio costituito da una cornice esotica, psicologie ben delineate, fotografia curata, attrici in stato di grazia, una critica sotterranea quanto acuta: il fatto, puro e semplice, che, escludendo la tecnica di resoconto del documentario, per uno straniero è impresa ardua catturare dinamiche e problematiche di una realtà obiettivamente troppo lontana dalla nostra perché un autore possa permettersi una narrazione che non sconfini nel paternalismo snob tipico di una certa parte degli intellettuali, soprattutto europei. Così, come accadde per Un film parlato (Um filme falado, M. DeOliveira, 2003), anche in questo Verso il sud assistiamo a una critica dall’alto di chi, a prescindere dalle intenzioni, pare considerarsi, pur se sottintendendolo, superiore ai poveri abitanti dei succitati paesi in via di sviluppo. Una presa di posizione che, pur ricalcando assiomi più radicali, è presente anche nella parte più irritante della filmografia di Lars Von Trier, altro cineasta slegato dalla responsabilità grazie a una critica a tutto campo.
Un occasione sprecata, dunque, per la denuncia e l’analisi di una situazione – quella, appunto, di Haiti – tutt’ora irrisolta.

Back to the agronomist
Jonathan Demme, con The agronomist (id., 2003), straordinario documento sulla vita di una delle figure centrali della storia recente di Haiti, il giornalista radiofonico Jean Dominique, era riuscito, grazie a un lavoro di ricerca e montaggio senza precedenti, a dare una perfetta visione di quella che è stata ed è attualmente la situazione dei paesi come quello caraibico, vessati dall’interno e dall’esterno da piaghe dal vago sapore biblico. L’idea di Cantet, quella di trasformare una denuncia in fiction attraverso un romanzo dal forte carattere femminile, appare in origine altrettanto brillante, pur se, come detto, più facilmente esposta a cadute di tono. Come quella, clamorosa, del finale della pellicola, nato probabilmente come una sottile critica neppure troppo velata eppure assolutamente aperto a interpretazioni opposte, specie se diretto a un pubblico per la maggior parte borghese, intellettuale e interessato ai disagi del mondo con l’adeguato distacco quale una pellicola come questa richiama.
Se, dunque, la ricerca del famigerato Sud dev’essere una sorta di affermazione sotterranea della grande e magnanima cultura occidentale, allora forse qualcosa va necessariamente ripensato, partendo da un cinema che non racconti attraverso i nostri occhi, ma che, al contrario, porti a essi vite, esperienze e realtà che, anche quando crediamo di conoscere, non abbiamo mai vissuto nella loro integra e brutale realtà.

Curiosità
Menoty Cesar, protagonista nel ruolo dello sfuggente Legba, è stato insignito del prestigioso Premio Mastroianni come miglior giovane interprete all’ultimo Festival di Venezia. Con il succitato A tempo pieno, il regista Cantet, sempre al Festival di Venezia, nel 2003, aveva conquistato un Fipresci per il valore sociale dell’opera.

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