Il colore donna che fa ritornare l’amore
Volver è un film, ma anche una canzone. Un mondo fatto della perfetta purezza femminile, vestita di santità anche nel peccato. Volver è soprattutto un toccante scarabocchio di passioni umane disegnato col compasso mirabile delle gambe delle donne. E’ una confusione di generi che non perde di vista il suo instancabile fuoco prospettico: il corpo femminile. Il seno, gli occhi, i piedi, il fondo schiena: è questa la partitura, il campo visivo della sessuofila regia almodóvoriana.
La donna è il corpo-testo messo a nudo, l’uomo solo il pretesto, didascalia vuota destinata all’eliminazione e all’emarginazione.
La donna è colore, il rosso, la forza di una tinta che non si estingue, che come sangue, si dilata sulle superfici che attraversa; è meteorologia (vento), cura dell’oblio, bene esiliato nei nascondigli delle nostre frontiere. Volver è la forza di una lacrima che è rimasta sospesa nell’aria negli anni, in attesa del ritorno dell’amore, quindi, della causa stessa che l’ha fatta nascere nel grembo dell’occhio; una lacrima che, infine, sgorga, divenendo momento artistico, canzone struggente, film. Sì, Volver è un film, ma anche una canzone. E così questa, che credete sia una recensione, è in realtà l’anomalo tentativo da parte del sottoscritto di recuperare, in chiave proustiana, la vaghezza della musica principale della pellicola e solo attraverso quest’armonia impossibile da rappresentare con lettere ritornare (volver, appunto) alle immagini.
Perché, in fondo, solo di queste e d’amore si nutre il ritorno delle persone.
«Io indovino il movimento delle palpebre / delle luci che in lontananza / segnando il mio ritorno /Sono le stesse che illuminarono / con i suoi pallidi riflessi / Profonde ore di dolore».
In queste luci umane, troppo umane, quasi cinematografiche, l’opera del cuore si chiude, l’amore si ricongiunge all’amore, una madre torna dalla figlia. Donna da donna. Luce da luce.
È il primo volver, l’impressione visiva di una sconosciuta immagine familiare che si riaffaccia sul nostro presente. Il ritorno è semplici immagini.
«E pur se non volli il ritorno / sempre si ritorna al primo amore.. La vecchia strada dove l’eco disse / è tua la sua vita, è tuo il suo amore…Ritornare, con la fronte marcita / le nevi del tempo argentarono la mia tempia/ Sentire.. che la vita è un soffio/ che venti anni sono un niente..».
Volver non presuppone mai l’assentarsi, l’allontanarsi perché mentre viviamo, già ritorniamo lì dove siamo stati, dove siamo e saremo. E il primo amore è il ritorno massimo, il cordone ombelicale con la memoria, la pace di un tempo che pur scorrendo sempre, dentro di noi si può fermare. Perché l’amore rende nostro l’altrui. Questo è il secondo significato di volver, la stasi del tempo nel tempo che va ed è andato, la possibilità di sconfiggere la morte. Il ritorno è l’eterno presente che viviamo.
«Che febbrile è lo sguardo, errante nelle ombre / ti cerca e ti nomina / Vivere…. con l’anima afferrata / a un dolce ricordo / che piango un’altra volta».
Almodóvar ci illustra, così, la notte di questa ricerca del passato, notte di errori e ombre, di sguardi febbrili e di echi, nella polisensorialità meravigliosa del soffio della vita, dove chi vive, vive ricordando da viaggiatore sbandato nel tempo della propria esistenza.
Irene, madre di Soledad e Raimonda, recupera l’affetto delle figlie, viaggiando questo difficile sentiero di paure e ricordi, che fa piangere e cantare.
Volver è un film, ma anche una canzone.
A cura di Giuseppe Carrieri
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