Lost (in)translation
Due vite e due fratelli di Matteo Treleani
È quasi solo un accenno alle provocatorie visioni di Michel Houellebecq quest’opera di Oskar Roehler. Nella pellicola si sente giusto l’eco di quel mondo diviso tra una tecnica la cui deriva porterà a una specie umana che non ha bisogno del sesso per riprodursi, e dunque a una società di individui isolati e privati dei sentimenti (vedi oltre a Le particelle elementari l’ancora più estremo La possibilità di un’isola) e le reazioni a questo sviluppo nelle estremizzazioni del sesso fine a se stesso. In primo piano restano le avventure sessuali apparentemente staccate dal loro sfondo teorico. Poca etica, dunque, ma neanche tanta estetica, visto che la regia è piatta e mediocre, quasi sempre televisiva e solo di rado interessante.
Il film è piuttosto la storia delle vicende sentimentali di due fratelli, uno che scopre l’amore a quarant’anni con l’amica d’infanzia, l’altro che si getta in avventure di ogni tipo, dal tentativo di sedurre un’allieva ai locali di scambisti e alle orge (la cui scena, per la cronaca e visto lo scandalo in Germania, è ben poca cosa e tutt’altro che scandalosa). Michel è colui che guarda al futuro e a un tragico sviluppo dell’umanità, che mira al sapere e nella scienza trova il mezzo per conoscere, Bruno, reazionario e razzista, è dedito all’alcol, al fumo e incapace di gestire una famiglia. Di contorno una serie di figure bozzettistiche, dalla madre hippy che vive in India e non si cura minimamente dei figli, alle odiate, almeno da Bruno, comuni dove si pratica il sesso libero. L’idea di un mondo alla deriva, dove si prospettano due visioni opposte ma ugualmente inquietanti, sembra perdersi nella storia privata dei fratelli. Giusto le frecciate che Houellebecq non risparmia mai ai comportamenti umani, dal femminismo a certi estremismi, sono rese in maniera piuttosto divertente.
Per il resto, Le particelle elementari sembra una trasposizione sterile, senz’anima, priva della potenza cinematografica così come di quella letteraria. Se da una parte si perde la capacità narrativa di Houellebecq, dall’altra il mezzo cinema non viene sfruttato per alcuna aggiunta di senso.
Sull’intraducibilità di taluni testi di Carlo Prevosti
L’impossibilità di una traduzione fedele. Capita spesso che all’uscita dalla sala cinematografica il primo dibattito che si viene a creare fra gli spettatori in coda per uscirne sia il confronto tra la versione appena vista e quella in forma letteraria. Da Lolita alla trilogia de Il Signore degli Anelli qualunque film, che sia opera di una riduzione, è certamente stato valutato tenendo in confronto la sua genesi tipografica. Riduzione appunto! Non si parla mai di traduzione perché sebbene si tratti di una transcodifica semantica da un linguaggio, quello letterario, a un altro, quello filmico, è sempre necessario che vengano effettuate delle riduzioni e delle sostanziali variazioni. Il romanzo è da sempre territorio linguistico del subconscio, del pensiero e delle sensazioni, particelle elementari della forma romanzesca che non hanno una controparte biunivoca nella forma cinematografica, luogo dell’immagine e della percezione sensoriale. Un tramonto al cinema può essere raccontato con una singola inquadratura, sebbene costruita da un occhio esperto e illuminata da un maestro della fotografia, comunica sempre in modo diretto, semplice e apparentemente superficiale. Lo stesso tramonto può essere descritto a parole in un intero capitolo di un libro attribuendogli valenze psicologiche, romantiche, emozionali in una varietà di sfumature che l’immagine cinematografica sembra non poter attribuire allo stesso soggetto. I due tramonti, sebbene ontologicamente affini, non possono essere paragonati delle due diverse descrizioni perché nel migliore dei casi avverrebbe una banalizzazione di entrambe le forme di linguaggio. Proviamo ora ad applicare il precedente esempio ad un elemento più complesso come la percezione che un individuo ha delle proprie pulsioni sessuali. Il lavoro descrittivo diventa assai più complesso sia nel caso del romanzo, sia in quello del film. Il confronto fra le due forme appare in questo caso ancor più improbabile.
Le particelle elementari è un testo che però non può fare a meno di questo confronto. Il romanzo scritto da Michel Houellebecq colpisce per la sua capacità di scavo introspettivo delle figure dei due fratelli protagonisti attraverso le pagine dei loro diari e le riflessioni che entrambi effettuano sul rapporto tra vita e sessualità. La necessità di una ricerca sulla riproduzione asessuata, atta alla trasformazione dell’individuo in una particella elementare che non debba dipendere da altre, è il motore che spinge Michael nelle sue ricerche fino al momento in cui ritrova l’amore d’infanzia in Annabelle, mentre per Bruno il sesso è l’espressione più pura della propria vitalità, oggetto e feticcio di una vita fatta alla ricerca dell’altro. Il film di Oskar Roehler si limita a intrecciare le vicende umane ed emotive dei due fratelli, con uno stile piuttosto tradizionale e senza alcuna invenzione narrativa. Un film onesto e ben costruito, fatto di facce normali, quasi il casting avesse voluto scegliere apposta volti non propriamente cinematografici, ma manca del guizzo linguistico inventato da Houellebecq. Non si tratta ora di valutare se fosse meglio il libro piuttosto che il film, semplicemente il film appare come un’operazione furba capace di sfruttare la solida vicenda narrativa tessuta da Houellebecq e di catalizzarne la fama pregressa. Da un libro che molti considererebbero intraducibile ottenere di più era una sfida persa in partenza.
A cura di
in sala ::