L’altra faccia dell’America
Geniale e pungente come al solito, Spike Lee innerva un avvincente film poliziesco di metafore drammatiche, che, una volta raggiunto il climax, assestano durissimi colpi ad alcuni capisaldi dell’economia statunitense: il carrierismo, il business e l’arricchimento senza scrupoli. Col conseguente, raccapricciante disvelamento di un’altra faccia dell’America, quella che non vorremmo mai vedere, che dietro alla maschera perbenista cela un mondo affaristico spesso corrotto e incurante di ogni regola sia sul piano etico che strettamente finanziario.
Un’autoanalisi cruda, attenta, spietata che non tralascia nemmeno gli effetti della paura post 11 settembre. Con notazioni ironiche che sottolineano come un semplice impiegato di banca possa essere sospettato di essere un nemico islamico, vessato e controllato in ogni suo spostamento non fosse altro per il colore della sua pelle e per l’uso di un turbante tradizionale. Come se il pensiero politically correct, sembra dirci Lee, dopo aver introiettato a forza i neri americani nei gangli della società americana, avesse scaricato le proprie inconfessabili frustrazioni su un’altra, indifesa minoranza, quella islamica.
Ma l’assoluta novità del film del regista afroamericano non consiste tanto in questi attacchi all’anima nera dell’America, piuttosto usuali per questo autore, quanto nel linguaggio cinematografico che Lee adotta per estrinsecarli. Inside man, infatti, si propone allo spettatore con una formula assolutamente originale: corrodendo, scena dopo scena, fino a disintegrarli, sia il genere poliziesco che quello drammatico. Il disfacimento di questi generi, che si evince dall’autoerosione caricaturale di ogni personaggio, porta alla creazione e alla visione di un terzo genere, che definirei surreale, o più propriamente legato al cosiddetto teatro dell’assurdo di Eugène Ionesco e Samuel Beckett.
Lo spettatore più avvezzo alle tematiche di Lee non mancherà di avvertire, in specie quando gli ostaggi presi in banca verranno vestiti e mascherati allo stesso modo dei rapinatori, che l’elemento surreale trasformerà la formula “tutti delinquenti” in “nessun delinquente”, come apparirà evidente nel finale alla Ionesco di questo film.
Un finale oltremodo brillante e a doppio binario, quindi, nel quale ci incammineremo scoprendo le carte di ogni giocatore più o meno occulto, tenendo d’occhio, in particolare, la magistrale interpretazione di Jodie Foster nella parte della manager d’assalto, e ribaltando le nostre opinioni sugli uni e sugli altri quando il gioco, infine, con sbalorditiva nettezza, svelerà chi ha barato fin dall’inizio e chi no. Trasformando quello che appare come un efferato assalto a una banca in una rapina perfetta, quasi linda, senza spargimenti di sangue e senza vittime, tranne la cattiva coscienza di chi ha speculato sulle vittime del nazismo.
L’ultima ondata cinematografica americana, dopo aver seppellito quella europea sotto un oceano di effetti speciali, ci sta surclassando anche sul piano delle pellicole ad alto contenuto politico e di impegno civile, come testimoniano Crash – Contatto fisico (Crash, Paul Haggis, 2005), Good night, and good luck (id., George Clooney, 2005), Munich (id., Steven Spielberg, 2005), Truman Capote – A sangue freddo (Capote, Bennett Miller, 2005) e, appunto, Inside man di Spike Lee. Un gap culturale che diventa addirittura imbarazzante se paragonato alle pellicole italiane, le quali, a parte gli ottimi Romanzo criminale (Michele Placido, 2005) e Il caimano (Nanni Moretti, 2006), non mostrano alcun un risveglio del cinema nazionale in fatto di film impegnati sui versanti storico-politici.
A cura di Osvaldo Contenti
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