… qui non arrivano gli angeli
Pare che Luc Besson stia lavorando da qualche anno ad Arthur e i Minimei (uscita prevista per il prossimo Natale), un film ad alto costo, girato in 3D e tratto da una saga per ragazzi in tre volumi che lui stesso ha scritto. In occasione dell’uscita di Angel-A, il regista ha dichiarato: “Avevo voglia di fare una pausa, di abbandonare i geni dell’informatica per tornare a qualcosa di più reale, con una vera macchina da presa e degli attori in carne e ossa”. E’ comprensibile. Quello che non è altrettanto comprensibile è il risultato, questa pellicola in un calligrafico e poco necessario bianco e nero, che fa tanto film intimista e poco colossal. I referenti immediati sono Frank Capra (La vita è meravigliosa – It’s a Wonderful Life, 1946) e Wim Wenders (Il cielo sopra Berlino – Der Himmel über Berlin, 1987), da cui tuttavia il regista francese più amato dal pubblico americano non sembra aver appreso quello che ci sarebbe stato da apprendere.
Ecco dunque un angelo scendere tra i mortali per redimere un uomo qualunque e mostrargli la bellezza dell’esistenza: lo schema è abbastanza noto, ma si può sempre “aggiornare” con intelligenza. In fondo, come scrisse Goethe “tutti i pensieri sono già stati pensati” e talvolta è il modus che fa la differenza. Ma forse Besson non ha fiducia nello spettatore, e ritiene di dover svelare da subito l’allegoria (allegoria?); per questo scrittura una stangona di un metro e ottanta, rigorosamente bionda (durante il catechismo ci insegnano che gli angeli sono così, no? Belli e biondi) e la chiama Angela, con una strepitosa impennata di originalità.
Sullo sfondo Parigi, cartolinesca e confezionata con lo stile delle grandi occasioni, in inquadrature aeree e subacquee che dovrebbero essere correlativo delle due dimensioni della spiritualità, inferno e paradiso, male e bene, colpe passate e redenzioni future. Tutto a esclusivo beneficio del protagonista (per contrasto con Angela, basso e moro), attorno alle cui menzogne ruota la vicenda, circoscritta al singolo individuo e priva di un respiro più universale, quale dovrebbe avere un’opera che voglia parlare dell’Umana Questione. Ma forse è giusto così, in tempi d’individualismo sfrenato e cieco: anche gli angeli hanno smesso di pensare all’universale.
Il colpo di coda finale, come se tutto il resto non bastasse, è la scoperta della verginità di Angela, nel caso lo spettatore non avesse ancora capito che la fanciulla non è una ragazza di strada ma appartiene alle dimore celesti: il (finto) moralismo trionfa e l’Amore – puro! – ha vinto ancora. Pare che, alla fine, l’unico a gettarsi veramente da un metaforico ponte, sia Besson stesso. Se questa è la salvezza offerta dagli angeli, non resta che augurarsi che qualcuno, la prossima volta, si mobiliti dagli inferi.
Curiosità
Il gioco di prospettive in cui la testa della protagonista si ritrova sovrapposta alla Nike di Samotracia fa tornare alla mente un celebre spot pubblicitario di assicurazioni.
A cura di Antiniska Pozzi
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