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Sotterfugi di una vita perfetta

Sotterfugi di una vita perfetta

Le omissioni, i non detti, le menzogne. Mine vaganti destinate a esplodere e incrinare, se non addirittura rovinare, la più perfetta e felice delle esistenze umane. Qualcosa si rompe, si lacera, procurando sofferenze atroci e totali destabilizzazioni. Il viaggio di Julian Fellowes dentro la vita di una ricca coppia inglese, divisa tra Londra e l’opulenta casa di campagna, niente è se non una commedia psicologica che tenta di insinuarsi fra i meandri della mente umana e scioglierne gli eterni dilemmi morali. Un film tutto inglese: nella recitazione mediata (impeccabile Tom Wilkinson nei panni del marito devoto, “duro e puro”, pronto a tutto per amore della moglie; meno convincenti Emily Watson e Rupert Everett imbrigliati forse in clichè spesso interpretati), nella fotografia ovattata che accarezza la pacata campagna londinese e rende grigia la giù plumbea metropoli, nei dialoghi carichi di quell’aplomb a tratti surreale e quasi inverosimile se non inopportuno, nella regia che c’è ma si nasconde, come a ritrarre la mano dopo aver lanciato il sasso, come impaurita dalla possibilità di trovare nei volti dei protagonisti movenze che potrebbero raccontarci di più di quanto sia lecito dire o sapere.

Tratta dal romanzo di Nigle Balchin La strada attraverso il bosco, la pellicola, rilassandosi troppo spesso e abbandonandosi a soporiferi momenti, a dimostrazione che ovviamente Fellowes non è Altman (di cui aveva sceneggiato Gosford Park – id., 2001 -, vincendo l’Oscar), non sembra decollare mai: un prodotto ben confezionato ma certamente non creato da un talento esplosivo, una storia d’amore e di tradimenti come tante. E mentre i dilemmi morali sembrano essere tutto il fulcro a cui ruota attorno il film, è proprio riguardo a questi che si rimane con l’amaro in bocca. Se può sicuramente andar bene una sospensione del giudizio, senza dover indicare chi sono i cosiddetti buoni e chi i cattivi, o quanto meno senza giudicarli, non c’è risoluzione. Non una risoluzione definitiva e universale che etichetti chi sbaglia e chi ha ragione, ma quanto meno una risoluzione filmica che veda una presa di posizione, l’appoggio per questo personaggio e non per un altro. Lasciati così, nel loro limbo di interrogativi, questi personaggi, che non hanno la levatura né morale né estetica né culturale di tanti altri eroi e eroine della storia del cinema, rimangono fini a se stessi.

E si esce dal cinema con la domanda “E allora cosa ci voleva dire questo film?”. Non perché ogni film debba dire qualcosa, anzi, ma in un intreccio così banale e in un’estetica così ordinaria, una presa di posizione più netta, simpatizzante o almeno ammiccante, avrebbe di sicuro donato alla pellicola quel tocco in più di personale tale da farla ricordare per un po’ e non dimenticarla seduta stante.

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