I brividi sono al secondo piano. Ma l’ascensore è bloccato. Che peccato, il film si gira a piano terra!
Tuttavia, il registra Jaume Balagueró non essendo buon tecnico di ascensori, arruola Calista Flockhart, ambienta tutto in Inghilterra e in questo ambiente desolato (!), bagnato dalla pioggia continua (!!) e da scricchiolii insoliti (ma non mi dite!) cancella ogni barlume di originalità che aveva illuminato il suo primo film (Nameless – id., 1999).

Nel film niente è degno di nota, o meglio, il risultato è un bel riassunto di leit motiv di genere: tralasciando il solito The ring (id., Gore Verbinski, 2002), qui gentilmente sputtanato, il regista ha il coraggio di ricordare la luccicanza black di Kubrick, i personaggi prinicipali di Bava (eretico!) e le donne sgallettate e sensibili dei film horror americani (non avremmo mai immaginato, ma sembra il remake di Haunting: Presenze – The haunting, Jan de Bont, 1999).

Non volendo ricordare puntualmente tutte le citazioni riprese, spesso non intese come omaggio bensì come chiavi nodali del film, la realtà (o la finzione) è che Balagueró ha scritto una sceneggiatura banale, che vuole condurre lo spettatore meccanicamente, rinunciando a spunti di originalità, scoperta, terrore.

Le ombre che attraversano la scena non fanno più paura, e non annichilisce nemmeno il presidente caustico che non crede a “tali fandonie”, né la favola metateatrale che chiude poeticamente il finale e che, sacrilegio!, colpisce per la ricalcatura imbarazzante con Tesis (id., Alejandro Amenábar, 1996).

Come in uno spettacolo teatrale senza invettiva scenografica, senza un equilibrio tra attori e luci, qui l’occhio di bue vuole colpire direttamente l’indizio, ma oscura tutto quello che intorno rimane: la sala del cinema, buia e addormentata, non può fare altro che addormentarsi, imbrogliata sotto le coperte del Dio della Noia.
E produce Edwige Fenech!

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