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Epoche perdute

Epoche perdute

Purismi d’epoca di Roberto Monzani

Dopo aver toccato il pubblico con un magistrale racconto ambientato negli ultimi giorni del Ghetto di Varsavia, Roman Polansky si cimenta con uno dei massimi capolavori della letteratura per ragazzi. Oliver Twist di Charles Dickens pubblicato a puntate, all’epoca si faceva cosi, poco prima della metà del XIX secolo.
Il fatto che sia un’opera organizzata in diverse puntate costituisce un primo importante tema. Il regista polacco ha infatti dovuto saper limare alcuni tratti mélo tipici di quel genere di opere, che avevano in essere la necessità di mantenere alta la tensione del lettore, di pubblicazione in pubblicazione. L’orfano nella pellicola si muove in un mondo dove le piccole o grandi (mai sottovalutare il punto di vista dei bambini ci avrebbe detto lo scrittore inglese) catastrofi che complicano la sua crescita sono più un effetto della forza del destino, del surrounding, mentre nell’opera c’era una maggiore complicità se non addirittura responsabilità del bimbo.

Qualcuno potrà forse leggere, in questo dettaglio, un rafforzativo della corrente di pensiero di chi vuole la scelta di quest’opera come una precisa indicazione di contemporaneità. I bambini di molti paesi del terzo mondo indubbiamente versano nelle medesime condizioni che vengono accuratamente descritte per la childhood londinese del XIX secolo.
Certo da un “purista” come lui, che ha ricostruito in maniera minuziosa negli studios cechi il piccolo mondo antico in cui Dickens ambienta il suo racconto, non senza concedersi la finezza di utilizzare la luce dei veri lampioni a gas per l’illuminazione pubblica, non possiamo attenderci altro: il Cinema è sì la magia che si compie negli occhi dello spettatore come in quelli di Oliver, ma la veridicità del particolare, la cura dell’alveo del narrato hanno una ragion d’essere, non potendo quindi trattarsi di mera estetica.

Così Polansky ci presenta una storia di un secolo e mezzo fa e nello stesso tempo molto attuale, diretta a una società, quella occidentale, che vive anche, e soprattutto, grazie allo sfruttamento del lavoro minorile. A tal proposito queste le sue parole, pronunciate alla conferenza di presentazione della pellicola, come riportate da molti organi di stampa:
«I milioni di bambini che oggi vengono sfruttati non sono molto diversi da quelli raccontati con meticolosità da Dickens. La Londra di allora somiglia molto ad alcune città cinesi di oggi. Dove enormi masse di popolazione migrano dalle campagne alla metropoli in cerca di ricchezza e dove il divario tra ricco e povero diventa drammatico».

Innocenza perduta di Rosario Maccarone

Dopo il fortunato Il pianista (The Pianist, Roman Polanski, 2002) il regista franco-polacco sceglie di adattare un classico della letteratura mondiale del calibro di Oliver Twist di C. Dickens. Il tema dell’infanzia è intimamente legato a Polanski, che visse sulla propria pelle le difficoltà della vita da orfano nel ghetto di Varsavia. Oggi ha voluto raccontare ai suoi figli il capolavoro dickensiano, con la sua durezza e il suo realismo ma allo stesso tempo con la sua ironia e il suo ottimismo.
Da un’opera così complessa si sarebbe potuto scegliere un adattamento più personale o con riferimenti più espliciti al presente. Polanski opta invece per un adattamento fedele, cercando di mantenere la profondità di lettura: racconto per bambini e contemporaneamente denuncia sociale, racconto di formazione che mette in guardia dai pericoli della vita e potente j’accuse verso una società che fa dello sfruttamento dei minori un cardine del proprio funzionamento. Eccola l’attualità senza fine dei romanzi di Dickens: la denuncia delle brutture della nascente società industriale, che ancora oggi, forse lontano da casa nostra, mantiene i suoi vizi e continua tranquillamente a perpetrare le solite malefatte.

Partendo da queste scelte di fondo e con la necessità di condensare in poco più di due ore un libro di cinquecento pagine, il risultato è un film dal sapore antico realizzato con le possibilità e i mezzi del cinema più moderno. Il film ci regala una Londra vittoriana viva e pulsante, ricostruita con ammirevole minuzia, che mescola come in un vortice ricchi e poveri, santi e diavoli nel calderone della città più popolata e allo stesso tempo disperata dell’Ottocento. Con un set di 40.000 m² che ricrea completamente cinque delle più importanti strade londinesi, la capitale del Regno Unito è protagonista del racconto allo stesso modo dei personaggi in carne e ossa.
È in questo ambiente che Fagin e Bill Sykes muovono la loro banda di burattini / borseggiatori e decidono della loro vita. L’arrivo di Oliver sconvolge l’equilibrio del gruppo, la sua bontà scardina le gerarchie e trasforma i burattini in burattinai. L’orfano buono e sfortunato diventa l’incarnazione del Bene che, come un virus, contagia lentamente ma inesorabilmente tutti quelli che gli stanno vicino. Ma il contatto tra bene e male non è indolore: al termine delle sue avventure Oliver piange per Fagin fuori di senno e in attesa di esecuzione. Il bambino ingenuo dell’orfanotrofio ora capisce che Fagin è finito in un vicolo cieco per scelte personali e autonome, ora Oliver sa che ogni azione ha una conseguenza, insomma è diventato adulto.

Tre però sono i punti controversi della pellicola ed entrambi nascono dal tipo di adattamento scelto. In primo luogo il sapore antico della storia potrebbe renderla noiosa agli occhi di un pubblico abituato a ben altri ritmi. In più la necessità di focalizzarsi sulla trama principale rende la narrazione eccessivamente lineare e in parte tralascia l’approfondimento di alcuni personaggi. Infine la scelta di raccontare il finale senza lasciare nulla all’immaginazione appesantisce gli ultimi minuti, che vorrebbero essere una sorta di morale del racconto ma che si trasformano in un’appendice inutile a storia già conclusa. Tutto sommato però, l’ultima fatica di Polanski riesce nell’intento di immergere lo spettatore nel clima di incertezza che regnava ai tempi della Rivoluzione Industriale e raccontare con realismo la difficile vita della gioventù disgraziata delle grandi metropoli.

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