L’impensabilità della poesia per tenerci in vita
Dritto al cuore. Meno perfetto di La vita è bella (1997) ma sempre in grado di distrarre, inquietare, divertire e commuovere. Roberto Benigni ricava così dal più antico e semplice degli spunti, il sentimento di un uomo innamorato, un’opera che parla di noi, un inno che non ha colori di bandiere né si tinge ideologicamente ma che lascia sgorgare spontaneamente la furia della voglia di vivere e della vita stessa, evocata come una messa in scena il cui unico perno è l’amore. Buonista e banalmente dantesco?
Per niente. Trovo anzi che il regista toscano osi dire una benedetta verità fin troppo nascosta e rilanci l’idea di una forza, quale la bellezza delle cose e del sentimento, violentemente sottintesa dagli orrori emergenti, per cantare la nostra origine prima: l’eversione e la rivoluzione delle emozioni.
Se ne La vita è bella è Guido Orefice a tentare col suo amore di proteggere il piccolo Giosuè dalla tragedia dello sterminio, ne La tigre e la neve questa volta è la scrittrice Vittoria a essere salvata dagli orrori della guerra e a essere magicamente strappata alla morte grazie all’aiuto di Attilio, che provvisto solo dell’impensabilità connaturata nella sua mente poetica – candida come neve, ma furiosa come una tigre – la tiene miracolosamente in vita.
Assistendo ai prodigiosi interventi del protagonista, il film sembra presentarsi come un’esplorazione visiva sull’ossessionante necessità della poesia per sconvolgere e ridare il senso della meraviglia e dello stupore anche al mondo di oggi, dove tutto è grigiamente così inevitabile (d’altronde «è del poeta il fin la maraviglia», diceva Marino). Più in profondità, La tigre e la neve è un ragionamento sul vedere dei costruttori di poesia. «I poeti non guardano, vedono» dice durante la sua lezione Attilio: non un mero guardare, ma un vedere oltre che li spinge ad aggrapparsi a ogni sedimento di vita in cui credono; un vedere sognante immersi in un cielo stellato per parlare con le parole giuste, tali da sintonizzare il battito del cuore di chi li ascolta al loro stesso palpito; un vedere che per la sua intensità è immortale, al punto che Attilio si sente di poter dire: «anche da morto mi ricorderò sempre di quand’ero vivo»; un vedere innamorato di qualsiasi cosa si veda, per il semplice fatto che c’è ed esiste.
E se Fuad alla fine s’impicca è solo perché la sua grande poesia si è inaridita e ha smesso di prepararlo all’aspettativa e allo stupore.
Tra paradossi comici e strazianti Attilio, in un certo senso, ci mantiene tutti in vita, che capiamo la sua lingua o no (basti pensare al suo dialogo intenso col sensale iracheno e al fatto che lui insegni in un’università per stranieri); come insegue eternamente la sua donna, così insegue tutti noi per trasmetterci quest’idea, spingendoci a poter credere che ovunque e sempre si possano vedere da vicino delle tigri sotto fiocchi di neve.
Benigni ha detto che «Vedere una buona storia d’amore non è buonismo, è potenza senza ideologia» e credo sinceramente che abbia ragione, o meglio che con questo film abbia comunque centrato il bersaglio. Ora come ora abbiamo ancora bisogno di favole per capire ed entrare nella realtà. Ora come ora abbiamo ancora bisogno di Roberto.
Curiosità
Nel sogno di Attilio / Roberto Benigni appaiono all’inizio figure letterarie come Eugenio Montale, Giuseppe Ungaretti, Jorge Luis Borges, Margherite Yourcenar ed è sempre nel sogno che Tom Waits interpreta la sua canzone inedita You can never Hold Back Spring.
A cura di Giuseppe Carrieri
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