Fabbriche di sogni
Se è vero che il cinema è una macchina dei sogni, allora Tim Burton ne è uno straordinario macchinista. La fabbrica di cioccolato è il nuovo, ennesimo esempio della straordinaria capacità del regista californiano di interpretare storie anche già conosciute nell’immaginario popolare con uno stile personale immediatamente riconoscibile. Il testo da cui è partito questa volta è il romanzo di Roald Dahl, edito nel 1964 e già portato al cinema sette anni dopo da Mel Stuart con l’interpretazione di Gene Wilder. Burton ha dichiarato di non aver amato particolarmente questa versione, che negli anni si è creata una sorta di alone di culto, e infatti è riuscito a raccontare la stessa storia con toni notevolmente diversi.
Certo, anche in questo caso la favola si conclude con un lieto fine, ma prima di arrivarci passa ben poco buonismo tra le pareti della fabbrica. Il personaggio interpretato da Johnny Depp è infatti un disadattato dall’infanzia difficile che, terrorizzato dalle spie, licenzia tutti i suoi dipendenti, sostituendoli con gli abitanti di uno strano paese, la Loompalandia. I quattro bambini che vincono insieme a Charlie la possibilità di visitare la fabbrica sono quanto peggio ci si possa aspettare da dei ragazzini: c’è la viziata da papà, quello che pensa solo a mangiare, il genietto dei videogame e la maniaca della competizione. Proprio la competizione nella fabbrica è uno degli aspetti cui viene dato molto rilievo da Burton, quasi fosse una velata critica ai reality show, di cui mantiene regole e forme. Il vincitore sarà Charlie, interpretato da quel Freddie Highmore che a dodici anni è già al secondo film con Depp, dopo Neverland (Finding neverland, Marc Forster, 2004) e ancora una volta in un’isola che non c’è. Tutti questi personaggi vedono le loro caratteristiche amplificate dal mondo che Burton dipinge dentro la fabbrica. Un mondo ideato insieme ad Alex McDowell, già scenografo di film come Il tagliaerbe (The lawnmower man, Brett Leonard, 1992) e Paura e delirio a Las Vegas (Fear and loathing in Las Vegas, Terry Gilliam, 1998) e proprio come in questi lisergico e coloratissimo, che unisce stili e generi, dal gotico al surrealista.
La fabbrica di cioccolato riesce così a essere un film perfetto su diversi livelli di lettura. Uno più semplice, che lo rende adatto a un pubblico di bambini, fatto di personaggi cattivi che vengono sconfitti e si redimono, di lieti fini, di insegnamenti quasi pedagogici. Uno più complesso, per un pubblico più adulto. Qui Burton si scatena, citando in maniera esilarante film come 2001 Odissea nello spazio (2001: A space odyssey, Stanley Kubrick, 1968 – e se il monolite fosse stato di cioccolato?) e Psycho (id., Alfred Hitchcock, 1960 – per chi era il coltello?) e giocando con il metafilmico (Willy Wonka e i suoi flashback), senza però mai cedere all’eccesso. In attesa di La sposa cadavere (Corpse bride, 2005), il suo prossimo film che sarà nelle sale a novembre, un vero capolavoro del cinema d’animazione accolto alla Mostra del cinema di Venezia da una vera e propria ovazione, Burton dimostra quindi di non aver perso il tocco magico, e di continuare a essere, ormai da vent’anni, il più grande manovratore della macchina dei sogni.
Curiosità
Tutti gli Oompa Loompa, i piccolissimi aiutanti di Willy Wonka, sono interpretati da Deep Roy, piccolissimo attore kenyota da trent’anni sulle scene. Lo si ricorda infatti in La Pantera Rosa sfida l’ispettore Clouseau (The Pink Panther strikes again, Blake Edwards, 1976). Con Tim Burton ha girato, oltre a La fabbrica di cioccolato, Il pianeta delle scimmie (Planet of the apes, 2001), in cui interpretava un piccolo di gorilla, Big fish (id., 2003), dov’era un nano del circo, e La sposa cadavere, dando la voce al Generale Bonesapart.
A cura di Alberto Brumana
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