Cinema abbandonato
I bambini sono insopportabili, perché sono perfetti, perché sanno quando piangere (naturalmente nel momento in cui vengono picchiati dalla madre), e sanno quando devono sostenere la famiglia, sistemando pazientemente i giocattoli, o aiutando il tecnico con il video-telefono.
L’amante (la vera “poverella” del film, Gaia Bermani Amaral, che tanto narrava sui giornali la sua svolta cinematografica – sì,ho fatto lo spot della Tim, ma ora Faenza ha creduto in me -) è insopportabile, minorenne?, perfetta, muta, preferibilmente allieva e conseguentemente amante, riconoscibile nel suo personaggio di specchio deformante e quindi causa della stessa deformazione della coppia.
Il marito, Luca Zingaretti, è piacente, quarantenne con il culto della madre (o forse del suo feticcio: tremendo l’ impasse degli orecchini, simbolo della tragicommedia in atto), silenzioso e spesso in colpa, ma allergico a toni estremi e maleducati. Lo stesso personaggio che sparisce dopo l’inseguimento ridicolo in macchina, infila la busta con la mensilità per i figli (con conseguente frase «se te ne servono altri, non esitare a chiamare» per indicare la sua flemma di imprenditore immobiliare che ci tiene alla Famiglia), e che ha il coraggio di dire «ho smesso di amarti, è forse una colpa?».
Cosa deve fare il pubblico in sala se non ridere?
Ridere di gusto della sceneggiatura, insostenibile, senza un minimo passaggio logico: alla frase finale del marito, la Buy ha il coraggio di dire «no, non è una colpa» e convince i figli, muti, ad andare in gita con il padre, e naturalmente lei esce con l’amica (una quarantenne ha il diritto di divertirsi, insomma!).
Ridere della mediocrità con la quale i personaggi vengono tratteggiati: senza senso i toni estremi della Buy che non si commenta (pietà?) perché, forse, riesce con la sua interpretazione a ironizzare alcune scene francamente insostenibili come l’apparizione del cane / fantasma a teatro, l’amplesso con Bregovič, personaggio non commentabile, o gli sguardi di pietà con la barbona, inutile e florilegio di luoghi comuni (la inducono a parlare con le piante!), ma che contribuisce a svilire l’intento allegorico della storia della “poverella”, il vero simbolo del terrore dell’abbandono, quello del distacco dalla propria madre, e della paura della separazione a un mondo deformato e a tratti incomprensibile.
Roberto Faenza si illude di mostrarci lo strappo che macchia il nostro equilibrio, e non ci rende miserabili, ma solo ridicoli e attaccati a stupide situazioni che vengono affrontate con il solito registro tragico – sentimentale che tanto vorrebbe essere Shakespeare e che invece arriva, a malapena, alla tipica maniera tragico – estrema di Muccino.
A cura di
in sala ::