Le due facce della pantera rosa
Clouseau chiede vendetta di Gianmarco Zanrè ****
La storia del cinema fin dalle origini ha sempre ritagliato uno spazio ben definito dedicato alle famigerate biopic: interpretazioni, spesso ispirate da libri o racconti, che attraverso la sensibilità del regista al lavoro hanno narrato le gesta di uomini e donne più o meno illustri. Dal titanico ritratto di Napoleone (Napolèon, Abel Gance, 1927) fino a quello recentissimo di Howard Hughes (The aviator – id., Martin Scorsese, 2004) il dilemma principale di questo particolare genere cinematografico è stato, fondamentalmente, il dualismo fra realtà e interpretazione dei protagonisti raccontati. Se, infatti, nell’ultima fatica di Scorsese il regista tende ad occuparsi soltanto di alcuni aspetti del complesso carattere del magnate Hughes, tralasciando le sue supposte simpatie politiche o l’isolamento della vecchiaia trasformandolo, a tutti gli effetti, in un simbolo di pionierismo – nonostante le imprese di volo, soprattutto cinematografico -, in questo caso Stephen Hopkins, già colpevole, in un certo senso, di essersi confrontato con un libro decisamente troppo lungo per un adattamento cinematografico (la biografia di Roger Lewis riadattata dagli sceneggiatori conta quasi ottocento pagine), smonta l’uomo Peter Sellers quasi sperando che il pubblico possa compensare la sua spiccata antipatia con le performance dell’attore. Se è chiaro del resto anche ai suoi più accaniti fan, che Sellers non fu una persona facile, la direzione presa dalla pellicola appare confusa fin da principio, in bilico fra un racconto parzialmente fedele alla vita dell’attore – rimaneggiato, come per l’episodio legato a Sofia Loren, per evitare ripercussioni legali – e una sorta di spettacolo inscenato da Sellers stesso nella reinterpretazione di tutte le figure che furono importanti per la sua vita, in un gioco simile – ma che, purtroppo, si rivela come una copia molto sbiadita – a quello operato da Milos Forman per Andy Kaufman (nello splendido Man on the moon – id., Milos Forman, 1999).
Una rievocazione, insomma, di cui non si intravede lo scopo preciso, dove la vita di Sellers è raccontata solo parzialmente – due matrimoni su quattro, salti temporali e tagli netti di figure presentate come importantissime – e il tono aleggia pericolosamente fra la pateticità della fiction televisiva e un atteggiamento “cool” dal gusto vintage / Mtv, complice una colonna sonora che più effettistica non si potrebbe.
Al caos “direzionale” che affligge, purtroppo, una pellicola dalle aspettative decisamente più alte, oltre a una regia che mostra il fianco proprio nell’abilità di raccontare – in particolare si faccia riferimento alla rottura fra Sellers e la prima moglie e alla rianimazione dai tempi biblici dello stesso attore dopo l’infarto, battuta soltanto da quella di Mary Elizabeth Mastrantonio in The abyss (id., James Cameron, 1989) – si aggiungono numerose cadute che, inevitabilmente, affossano il risultato complessivo. Un cast per nulla azzeccato, a cominciare da un Rush mai esilarante come l’inimitabile protagonista della pellicola neppure nelle vesti dell’ispettore Clouseau o del dottor Stranamore – le metamorfosi comunque più riuscite – e inadatto anche fisicamente a ricoprire il ruolo; una sbiaditissima Emily Watson, che pare aver dimenticato le sue capacità, un irritante Stephen Fry e gli assolutamente inguardabili Stanley Tucci, Sonia Aquino – come se non bastasse doppiata con un accento simil-napoletano per rendere “al meglio” la differenza di parlata fra Sellers e la Sofia nazionale – e Charlize Theron, che abbandonato il trucco da serial killer pare essere tornata la scialba pin up di sempre. L’unico a salvarsi è l’ottimo Lithgow, che fa rimpiangere l’idea di un biopic che racconti Blake Edwards.
Nonostante la confezione patinata, inoltre, produttori e production designer paiono gareggiare con il regista per la paternità di sviste colossali ed anacronismi evidenti: dall’edicola di fronte a Cinecittà dove campeggiano pubblicità di riviste attualmente distribuite, allo skyline di una Los Angeles che, venticinque anni fa, poteva solo essere immaginata. Interessante notare anche come, al cospetto dell’invecchiamento evidente di tutti i personaggi, Sellers e i suoi due figli restino assolutamente identici per tre quarti della pellicola, prima di divenire in un lampo un ottuagenario il primo (curioso pensare che morì nel 1980, a soli cinquantaquattro anni) e adulti i secondi. La peggiore tradizione della biopic, dunque, colpisce una volta ancora, complici scelte azzardate a partire dal testo di riferimento, per finire con un regista non all’altezza e una troupe forse fagocitata dalle pretese alla base dell’operazione stessa.
Peccato davvero: Peter Sellers, uomo discutibile ma grandissimo artista, avrebbe meritato di meglio.
Il volto triste di un grande attore di Ciro Andreotti ********
«No, voi qua non potete entrare». È con questa frase semplice ma imperativa che si può sintetizzare il certosino lavoro di ricostruzione eseguito dal regista Stephen Hopkins: lo stesso Sellers che in una scena conclusiva del biopic che lo riguarda impedisce ai propri fans di entrare, assieme a lui, nel privato del suo camerino. Già, perché Sellers era tutti e nessuno, o per meglio dire era uno, nessuno e centomila personaggi al tempo stesso. Capace di sbalordire chiunque con cambi di tono e di aspetto e di interpretare contestualmente numerosi personaggi, tanto da persuadere Stanley Kubrick a scritturarlo per un poker di leggendarie macchiette per il Dottor Stranamore (Dr. Strangelove or: How I Learned to Stop Worrying and Love the Bomb, Stanley Kubrick, 1964) e al tempo stesso incapace di slegarsi dal ruolo di camaleonte del palcoscenico anche nella sua vita quotidiana.
Nessuno, secondo la biografia di Roger Lewis dal quale è tratta la sceneggiatura del film, è mai stato veramente in grado di avvicinare la vera essenza dell’uomo Sellers. Non certo la moglie Anne Howe, che lo definiva «un bambino mai veramente cresciuto» o per lo meno mal cresciuto dalla madre Peg, ex-stella del varietà che per il figlio stravedeva e che sin da piccolo ne ha plasmato un carattere sfaccettato che gli permettesse la mimesi con qualunque personaggio, che si trattasse di una semplice macchietta o di un’interpretazione degna del premio Oscar. Né tanto meno lo sono state le numerose donne, i figli e le amicizie che ha incontrato durante i cinquantacinque anni della sua vita.
La bellezza del premio Oscar Charlize Theron aggiunge quel pizzico di trasgressione e di scelleratezza cui Sellers abituò i suoi fan, cucendo al fianco dell’insicuro attore interpretato da Geoffrey Rush la figura di Britt Ekland, terza moglie dell’attore. Un’interpretazione che però è condannata a scomparire di fronte all’ego smisurato di un uomo solo e insicuro, che dalla pellicola risulta essere in fin dei conti solamente la caricatura di se stesso.
L’australiano Geoffrey Rush, non nuovo a valide interpretazioni biografiche, basti rammentare il premio Oscar per il ruolo di protagonista in Shine (id., Scott Hicks, 1996), non ha mai nascosto una vera e sincera venerazione per la comicità surreale di Sellers, tanto da definirlo degno della fama di un Beatle e da rendergli onore e merito in una pellicola difficile. Pellicola contro la quale persino i famigliari dell’attore, originario di Southsea, si sono opposti sin dall’inizio, causa la ben pessima opinione che in definitiva reca all’uomo Sellers.
Nel complesso, a sintetizzare la validità della ricostruzione della figura di uno dei comici più validi del secolo appena concluso e di un prodotto che immerge lo spettatore nella Swinging London degli anni sessanta è sufficiente una lapidaria frase con la quale il regista Blake Edwards ne ha commentato la riuscita: «Guardando il film mi sono dimenticato di Geoffrey e alla fine mi pareva di rivedere Peter».
Curiosità
Dalla vita di Sellers il regista Stephen Hopkins ha omesso il film Hollywood Party (The Party, Blake Edwards, 1968). Tu chiamami Peter è stato presentata in concorso alla LVII edizione del Festival di Cannes (2004) e ha ricevuto ben quindici nomination per gli Emmy Awards, che verranno consegnati il prossimo 18 settembre. Tra i protagonisti del film troviamo anche l’ìtaliana Sonia Aquino (che oltre ad attrice è un noto volto di Coming Soon Televison) nei panni di Sophia Loren.
A cura di Gianmarco Zanrè
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