Chi ha paura dell’Uomo Nero?
Sam Raimi torna nella “casa” per produrre un film che mette a nudo le paure dell’uomo, quelle legate all’infanzia, al buio e alle forme diaboliche che solo il buio può generare. Quanti di voi hanno sentito parlare dell’uomo nero quando erano piccoli? E’ questo lo spunto interessante dal quale partire per realizzare un bel film, diretto da Stephen T. Kay, che da un’idea brillante riesce a generare tensione e angoscia, rendendo terribilmente vere quelle paure che hanno accompagnato l’infanzia di tutti i bambini.
Un film che attraverso le proprie immagini racconta decenni di cinema dell’orrore. Un’arte appresa dai grandi maestri (dei quali fa indubbiamente parte Sam Raimi) ora resa sublime attraverso l’uso di effetti digitali in grado di aumentare il clima di tensione tra i diffidenti spettatori del cinema moderno, difficilmente conquistabili e impressionabili.
Già la prima scena mostra l’infanzia del piccolo Tim, in una stanza, in cui fa la sua prima apparizione l’uomo nero. È un’ombra, compare nel buio, scompare alla luce. E’ la paura che si materializza nei luoghi resi da sempre inquietanti grazie al cinema horror, quei luoghi nei quali è possibile far rivivere l’incubo più intimo, legato al ricordo, legato ad una “sciocca” paura infantile. E non poteva di certo mancare una tetra e isolata casa di campagna, luogo in cui le citazioni richiamerebbero una lista infinita di registi che vi hanno ambientato macabre vicende. Sam Raimi su tutti. Ma non solo. La casa è fatta di quei piccoli luoghi in cui nasce la figura dell’uomo nero, quei luoghi che da sempre incontrano le visioni e le paure dell’infanzia, gli angoli bui in cui si può immaginare di essere presi e portati via da figure diaboliche di ogni tipo. Così si guarda sotto il letto o si spia dietro le ante dell’armadio, cercando di allontanare l’incubo, ma ahimè, trovando spesso un riscontro reale.
Porte che si aprono e porte che si chiudono ci conducono all’interno dei luoghi del terrore, dove Tim (Barry Watson) cerca delle risposte, affrontando l’incubo che da sempre lo perseguita, e tentando di risolvere un conto in sospeso col passato. Ci si perde all’interno di spazi che mutano le concezioni del tempo, che divengono inquietanti porte spazio-temporali tra un passato fatto ricordi devastanti, e un presente enigmatico, dove sia Tim che lo spettatore perdono l’orientamento. Unico punto di riferimento una bambina vittima dell’uomo nero e conoscitrice dell’unica via di fuga: affrontare le proprie paure.
Grazie al digitale e a inquadrature molto ben studiate (come nella scena dell’altalena) Boogeyman riesce nel suo scopo principale, e cioè fare paura. A volte si rischia di cadere nel già visto, ma non si può dire che il film non sia ben architettato. Quello che forse fa perdere qualche punto a un prodotto per gran parte di buon livello è il finale, nel quale la volontà di rendere tutto visibile distrugge ogni traccia di tensione. Si ha molta più paura dell’invisibile, e l’aver dato forma all’uomo nero fa crollare il film nella goffa rappresentazione visiva di un “cattivo” che non dovrebbe avere né forma né volto. Ne risentono le scene finali, dove la tensione accumulata lascia il posto a un’assenza di gusto, dove tutto è troppo vero, e dove l’immaginazione sfuma pian piano creando un inutile lieto fine, in cui tutto torna, in cui tutto trova una soluzione. Ed è davvero un peccato.
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