Spielberg e l’alieno cattivo
Spielberg di alieni, al cinema, ne ha già incontrati diversi. Il piccolo E.T. dai piedi brutti e i pacifici esseri filiformi di Incontri ravvicinati sono stati per lungo tempo i discendenti dell’alieno di Ultimatum alla terra (The Day the Earth Stood Still, Robert Wise, 1951), sceso sul nostro pianeta con un messaggio di pace e contrastato come un nemico invasore. Questa volta Spielberg si avvicina di più ai blockbuster catastrofici in stile Indipendence Day (id., Roland Emmerich, 1996) per raccontare una nuova forma di colonizzazione, violenta, inaspettata, insospettabile. Lo spunto è il classico della letteratura di fantascienza di H.G. Wells, già fonte di ispirazione per una altro film (altamente spettacolare per il 1953, kitsch e patetico visto oggi) di Byron Haskin e, soprattutto, del celeberrimo sceneggiato radiofonico di Orson Welles che ad Halloween del 1938 sparse il caos in tutti gli Stati Uniti d’America. Oggi Spielberg ripropone la stessa storia vista dagli occhi di Ray, un operaio di cantiere che si trova ad affrontare situazioni da eroe, nelle vesti di normale uomo comune, per salvare se stesso e i suoi figli dalla minaccia aliena.
Oltre cinquecento scene infarcite di effetti speciali sono servite a rendere l’invasione aliena nel modo più realistico e minaccioso possibile, ma ciò che stupisce maggiormente è come essa possa assumere in epoche diverse dei significati e dei connotati diametralmente opposti. Negli anni cinquanta l’alieno, il marziano, era spesso metafora del comunismo che si insinua nella società sana come un virus, una malattia. Oggi quando l’attacco è agli inizi e l’alieno non è riconosciuto in quanto tale, una bambina (straordinaria Dakota Fanning) chiede al padre se quello che sta accadendo è colpa dei terroristi. La patologia da psicosi post-11 settembre è chiara e il film è denso di richiami ad un immaginario collettivo segnato dalle immagini televisive del crollo delle torri. Non a caso Ray potrebbe essere stato uno dei sopravvissuti del crollo dei grattacieli di New York, così come le folle in fuga per le vie delle città ricordano ciò che la televisione ha mostrato in diretta. Così abbiamo la consapevolezza che qualcuno o qualcosa ci osserva da lontano, nascosto nel buoi, ci studia e sceglie di colpirci sfruttando i nostri punti deboli, in particolare la tecnologia. Appare indicativo come il panico e l’incredulità si sparga fra la gente prima ancora che l’invasione inizi, basta solo che le macchine misteriosamente si fermino per paralizzare l’umanità.
Spielberg analizza il panico dell’uomo, nelle sue forme più diverse, dall’isteria collettiva dell’ homo hominis lupus (la scena dell’auto) alle crisi di panico individuale (che bloccano di terrore la piccola Dakota) all’estremismo che rifiuta la realtà (Tim Robbins). Provando ad emulare il lavoro di analisi della paura di Alfred Hitchcock ne Gli uccelli (The birds, 1963), Spielberg psicanalizza gli stati delle paure umane, sommergendo però il tutto da metri di detriti e polvere di uomini carbonizzati. Si può leggere infatti anche traccia dell’olocausto nazista nelle modalità in cui vengono rappresentate le stragi di esseri umani compiute a colpi di laser da parte dei tripodi alieni. Il tranello in cui cade Spielberg è lo stesso di Minority Report (id., 2002), un testo celebre, una grande quantità di idee e temi da trattare che vengono però dispersi in una profusione di effetti speciali capaci di lasciare a bocca aperta lo spettatore durante la visione rischiando di farlo tornare a casa con poche certezze in più.
La struttura del film è molto legata alla tradizione del genere catastrofico;un gruppo di persone, in questo caso una famiglia per quanto poco coesa, si trova a fronteggiare un nemico (avrebbe potuto essere una glaciazione, l’inquinamento atomico, le api assassine) più grande della portata della loro immaginazione, in cui la salvezza è data dal raggiungimento di una meta. Come un road movie catastrofico si volge infatti sulla rotta New York/Boston senza concedere cedimenti a questo asse, cosa che da uno sceneggiatore esperto come Koepp non ci si aspetterebbe. Il risultato sono quasi due ore frenetiche, di sicuro divertimento estivo e altrettanto successo botteghino, ma la sensazione che si tratti solo di un circo dell’effimero pervade lo spettatore più accorto.
A cura di Carlo Prevosti
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