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Anonimia della maschera

Anonimia della maschera

Il titolo scelto dalla distribuzione italiana, come al solito, è lontano dall’essere neutro: l’aggiunta dell’aggettivo “diva” dà una sfumatura di provincialismo che l’opera proprio non possiede. E distrae dall’oggetto del film, che è sì Julia, che è sì una diva, ma vista attraverso una prospettiva interna, del suo “essere” dietro la maschera di questa Julia. Gradazioni di significato, ma il personaggio ne guadagna in naturalezza, appare più reale, se considerato sotto questa giusta prospettiva. La sua osservazione, diventa più interessante.

Tratto dal romanzo scritto negli anni trenta da William Somerset Maugham (Adelphi), La diva Julia è un eccellente prodotto di maestria, talento, esperienza. Gli ingredienti perché il risultato finale fosse molto buono c’erano tutti: un grande regista, l’ungherese Istvàn Szabò, Oscar per Mephisto (id., 1981); un romanzo di classe come quello sopraccitato; uno sceneggiatore esperto in adattamenti cinematografici (Ronald Harwood, Oscar per Il pianistaThe pianist, Roman Polanski, 2002); un cast ottimo su cui svetta Annette Bening, attrice mai tanto apprezzata, e Jeremy Irons, al solito impeccabile; pregevoli, ancora, la fotografia, le scenografie, i costumi. Alto artigianato: l’espressione ricorrente in ogni commento a La diva Julia: con una certa ragione. Gli ingredienti hanno mantenuto le promesse. Ma non era scontato.

Nell’opera allestita da Szabò va in scena (letteralmente) l’eterno gioco delle maschere, la linea sottile che separa, quando riesce, la realtà e la finzione, la sincerità e l’inganno. Julia finge: sulla scena, nella vita, come tutti fingiamo, sostenendo la parte che gli altri si attendono da noi, che noi stessi pretendiamo di rappresentare. Quanto più ci sentiamo liberi, spontanei, tanto più interpretiamo un ruolo che abbiamo creduto di scegliere di testa nostra. Il discorso è vecchio ma è sempre attuale, anzi acquista attualità invece che perderne. Non c’è scampo a questa prigione? La Julia del film di Szabò si riscatta proprio immergendosi nella recitazione fino agli occhi, e invertendo le parti: teatro nella vita reale, verità sulla scena. Crea un cortocircuito, e la verità inscenata ritorna finzione (le repliche successive), la finzione della vita ci restituisce una “diva” in parte più autentica, ma solo in quanto ha percorso fino in fondo la strada diretta al nucleo della propria arte, del proprio essere attrice. Del resto, ogni grande interprete vive sulla propria pelle questa dualità apparente, illusoria, di potere/dovere essere altro da ciò che si è (e molto probabilmente si faticherebbe a sopportarlo, l’essere solo se stessi): mi viene in mente subito Vittorio Gassman, ma gli esempi non mancano di certo.

Questo film che tratta di temi così urgenti e universalmente validi con deliziosa brillantezza e mirabile fattura è in completa controtendenza rispetto alla voga di questa epoca, che sfoggia confezioni accattivanti e coloratissime, frutto di studiato “design”, di elaborate tecniche di “comunicazione”, e poi scopri che dentro la confezione è vuota oppure c’è un mattone, come quelle autoradio che si diceva rifilassero per strada a Napoli; nel film di Szabò non c’è scarto tra contenitore e contenuto, entrambi sono “reali”, “veri”; e forse è per questo che il termine “artigianato” così bene si gli si addice. In un certo passaggio di Passa la bellezza, romanzo di Antonio Pascale, il protagonista Postiglione si lamenta con un amico a proposito dei nuovi sedili ergonomici dei treni: belli e moderni e studiati per seguire la conformazione della schiena, però invece sono duri e scomodi. I vecchi sedili color sanguinaccio, di gommapiuma e similpelle, saranno stati anche brutti e retrò: ma se tu viaggi per più di un’ora te ne accorgi, se il sedile ergonomico è vero progresso, o meno.

E La diva Julia è inoltre in controtendenza verso una (certa) idea di cinema, che per essere apprezzato da (certa) critica deve burocraticamente trattare i Temi Urgenti e Universalmente Validi di cui sopra con profonda gravosità e religiosa lungaggine, perché è vero che il cinema è Arte: ma non si vieta da nessuna parte, mi pare almeno, che un film non possa anche essere molto piacevole.

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