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French Chainsaw Massacre

French Chainsaw Massacre

Che confusione…sarà perché è francese
Nel mio personale immaginario di cinefilo ho sempre associato lo splatter in ogni sua incarnazione alla tradizione americana nata dall’evergreen Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, Tobe Hooper, 1974) o al sempre troppo poco conosciuto genio nostrano Mario Bava. Ecco la prima sorpresa: il contestatissimo – e censurato – Alta tensione è un prodotto francese opera di un quasi esordiente che, se non fosse per le macchine, i nomi e i Ricchi e Poveri (!!!) come prima cartuccia della colonna sonora darebbe ad intendere allo spettatore di trovarsi effettivamente in una qualche piantagione di mais del Sud degli Stati Uniti, con tanto di tramonto iniziale da cartolina. Ottimo trucco ben mascherato, così come le numerose citazioni – mai invasive -, il ritmo e l’utilizzo del 35mm, che alterna, soprattutto nella prima parte, soggettive e inquadrature laterali troppo corte per far pensare a normali carrellate ma efficaci se associate al montaggio nervoso di Baxter.
Giunge dunque, dopo una breve introduzione delle protagoniste, il momento dell’entrata in scena dell’omicida, un sudicio squilibrato soprappeso in tuta da imbianchino dall’esordio eccessivo e forse gratuito, che non lascia presagire nulla di buono. Seconda sorpresa: l’utilizzo del serial killer, per una volta, appare efficace e senza compromessi, complice un’inusitata violenza quasi coreana (attenzione al nuovo utilizzo dell’armadio) e la totale mancanza di spiegazioni di fronte al sangue, alla crudeltà, alla selvaggia forza bruta dell’aggressore. Il coinvolgimento è assicurato, specie se, da appassionati di genere, o semplicemente da non moralisti, si osserva quello che, a tutti gli effetti, è un ritratto molto simile a quello operato da John McNaughton per il suo Henry pioggia di sangue (Henry: Portrait of a Serial Killer, 1986): semplicemente un assassino all’opera secondo quella che è la sua routine, per quanto sconvolgente possa apparire agli occhi del mondo.
Seguiamo dunque Marie, improvvisatasi cacciatrice per amore, alla ricerca di una via di fuga, di salvatori e, infine, di vendetta per ritrovare l’amata Alex, prima ancora che il resto della sua famiglia. Terza sorpresa: uno degli aspetti più interessanti è l’egoismo dimostrato dalla stessa Marie durante il massacro dei famigliari dell’amica. Preoccupata più di nascondersi di fronte alla morte dei genitori e di liberare l’amica/amata rispetto all’uccisione del fratellino non lascia spazio alcuno a retorica e facili eroismi, mostrandosi – ed è cosa rara – un personaggio estremamente “umano”. Se tutto finisse in quella serra, con il confronto fra l’ottimo psicopatico Philippe Nahon – davvero eccezionale nel rendere la parte – e l’insanguinata DeFrance, che tanto ricorda la Giovanna D’Arco della Passione di Carl Theodor Dreyer (La Passion de Jeanne d’Arc, 1928), saremmo di fronte a una piccola perla di genere. Invece, purtroppo, le sorprese non sono finite. Ma, a ben guardare, avremmo dovuto rendercene conto fin dal principio.

Ognuno ha il suo sasso
Nel suo straordinario romanzo/biografia Mind Hunter, purtroppo ormai irreperibile in Italia, John Douglas, ex-agente dell’FBI e primo sperimentatore del metodo di elaborazione profili, afferma che ogni uomo, killer oppure no, ha un suo sasso, ovvero l’elemento fisico, grande o piccolo, dal quale si può partire per costruire il suo crollo, sia esso una confessione o un potenziale ricatto. Il sasso di Aja è, purtroppo, quello di essere un giovane francese figlio della cultura cinematografica imposta dalle mode oltreoceano: se, infatti, la costruzione della pellicola, il suo “montare”, e lo sviluppo appaiono ottimi per un quasi esordiente, con la conclusione e la volontà un po’ forzata di chiudere il cerchio trovando necessariamente una spiegazione apparentemente originale, l’intera costruzione crolla miseramente come un castello di carte, rivelando un’eccessiva facilità di scioglimento, buchi nella sceneggiatura e anche un discreto atteggiamento di superiorità nei confronti dello spettatore.
Con la conclusione, si torna dunque al principio, rivelando, inesorabilmente, tutte le pecche di una pellicola solo apparentemente buona, che si riduce a un esperimento mal riuscito di splatter intelligente. Le stesse citazioni che al primo passaggio paiono divertenti e azzeccate divengono un peso, sintomo di un eccessiva preoccupazione per “l’etica” quando, in questi casi, e forse solo in questi, il regista dovrebbe concentrarsi “sull’estetica”. Mario Bava docet, e in fondo, non possono essere tutti George Romero.
Raskolnikov, nel Delitto e castigo di Fjodor Dostoevski, in un articolo giustifica l’omicidio quando è compiuto da un uomo straordinario rispetto alla massa di individui ordinari, se questo è utile per completare il suo progetto di cambiamento del mondo. E’ possibile, e molto probabile, che come il suo mecenate Besson, anche Aja si sia immedesimato un po’ troppo nel buon Rodja. Peccato, decisamente un occasione sprecata.

Curiosità
Il giovane Alexandre Aja, classe 1978, al suo secondo lungometraggio, è il figlio del regista e produttore Alexandre Arcady e della critica cinematografica Marie-Jo Juan.
Tra i produttori, pur se non accreditato esplicitamente, figura il famoso regista Luc Besson, uno dei cineasti più “esportati” della storia recente del cinema francese, autore di pellicole quali Leon (id., 1994), Nikita (id., 1990) e Il quinto elemento (The Fifth Element, 1997).
Fra le numerose citazioni presenti nella pellicola, spiccano senza dubbio la doccia di Psyco (id., Alfred Hitchcock, 1960), l’inseguimento nei campi di mais come il labirinto di Shining (The shining, Stanley Kubrick, 1980), la corsa verso la salvezza attraverso il bosco inseguita dal maniaco dotato di sega circolare (il già citato Non aprite quella porta) e la macchina con cui Marie insegue il furgone, gialla e nera come la tuta di Bruce Lee in L’ultimo combattimento di Chen (Game of Death, Robert Clouse, 1978), ripresa poi da Uma Thurman in Kill Bill Vol. I (id., Quentin Tarantino, 2003), con tanto di bandiera sudista ben in vista sul retro.

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