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Distacco dal riscatto

Distacco dal riscatto

Prima di qualsiasi altra considerazione, il film di Francesco Munzi merita un “grazie”.
Essendo noi italiani piuttosto distratti, come capita ai popoli benestanti, ci sfugge quanto accade in casa nostra. E in effetti, l’amata penisola, complice la sua posizione geografica, è meta ambita di frotte di immigrati. Si tratta quasi sempre di povera gente alla ricerca di una vita migliore: a cui sono agganciati col filo della speranza. Il film parla dei cosiddetti “extracomunitari”. E lo fa dopo aver esercitato una chiara scelta di fondo: puntare la cinepresa su di loro, far apparire gli italiani come comparse.
L’Italia è vista dall’esterno. Gli immigrati intrecciano relazioni tra di loro e formano un microcosmo, in cui entrano persone di lingua e cultura diversa, dagli albanesi agli zingari ritratti nelle solite baracche. Ma appunto per questo un microcosmo, a mio avviso, meno compatto di quanto si possa supporre. Nel film si mostra che nel mondo dell’immigrazione i rapporti tra connazionali ricalcano quelli tra italiani. Gli “extracomunitari” si trovano in bilico tra la realtà da cui provengono e la realtà “d’arrivo”, una sorta di “limbo” dove la soglia della responsabilità individuale è al minimo, e invece di espiare i peccati si decide di commetterli. Il giovane protagonista albanese, Saimir, desidera entrare nel mondo degli italiani, ma si accorge presto di pretendere troppo da se stesso, “di non essere all’altezza”, di essere uno “straniero”. Non possono e non vogliono aiutarlo nel processo di integrazione né il padre (trafficante), interessato solo a se stesso, né la ragazza italiana destinata ad abbandonarlo, né gli amici delinquenti.

Saimir è lasciato da solo con il proprio desiderio di riscatto, e inizia un percorso di formazione, o di redenzione, assai doloroso. Sino alla clamorosa decisione finale.
Se il vuoto in cui è abbandonato è metafora di uno stato d’animo, si può parlare nel suo caso di “tabula rasa”, di punto e a capo, dove a dominare è una dimensione che si fa presto a definire spirituale. Ed è interessante notare che la voglia di ricominciare nasca dall’incontro con una ragazza, straniera come lui, ingannata e costretta a prostituirsi.
Per avere il coraggio di ribellarsi al padre, il passaggio su suolo straniero era necessario. La pietra dello scandalo non è però una giovane italiana. Infatti, incontrata per caso su una spiaggia, la ragazza determina il crollo delle sue speranze più alte, con il proprio rifiuto di accettare, “chiavi in mano”, la vita del giovane. Per Saimir una simile decisione rappresenta un doloroso ritorno alla realtà. Senza il quale la terribile situazione della quindicenne albanese che viene violentata per essere “svezzata” alla prostituzione sarebbe passata, ancora una volta, attraverso il filtro dell’indifferenza del ragazzo

Il punto vero, che rende la storia un esempio della migliore tradizione del pensiero, è la natura problematica del giovane albanese, incapace di capire le regole della nazione che lo ospita, inadatto ad accettare le leggi del suo mondo.
In sostanza solo, quindi, Saimir incarna la figura dello “straniero” in senso metaforico, cioè dell’individuo destinato ad essere odiato dai suoi simili, prima ancora che dagli altri. Perché nel film, decidendo di denunciare i connazionali, il giovane subisce a sua volta una punizione, quella di venire espulso (o processato). In tale maniera Saimir dimostra di avere agito senza calcolo: ed è questa la caratteristica di chi – al di là del desiderio di redenzione – vive tutto intero in una dimensione interiore e non è interessato a ciò che lo circonda se non come luogo di un rito di passaggio.

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