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Semaforo rosso per il cinema d’oltralpe

Semaforo rosso per il cinema d’oltralpe

Cédric Kahn non riesce a capitalizzare quel che di buono era stato fatto nel suo precedente lavoro, Roberto Succo (id., 2000). Il risultato finale diviene un triste affresco famigliare cui nemmeno la bellezza di Carol Bouquet riesce a dare un minimo di lustro, distogliendo lo spettatore da una serie di interpretazioni monocorde.
Una sceneggiatura stanca e logora, tratta da una rielaborazione di un racconto omonimo di Georges Simenon, padre del commissario Maigret. Una sceneggiatura cui lo stesso Kahn ha infelicemente contribuito, che fa scivolare lo spettatore nel limbo cui è relegata la vita di una normalissima coppia medio borghese residente nella capitale francese.

Anni di incomprensioni, di presumibili litigi covati nel silenzio di una vita coniugale scandita dalle consuetudini cui si ancorano le vite di persone a noi vicine e, spesso, di noi stessi: il lavoro, la vita con i figli, le vacanze trascorse ogni anno nei medesimi luoghi, l’alcool, o il lavoro, quali banali vie di fuga.
Il risultato che si ottiene è però una formula senza pathos né interesse. Che solo in un finale liberatorio si riscatta, parzialmente, dalla piattezza nella quale era scivolata sin dall’inizio: ma sarà poi possibile ricuperare anni di dissapori in così breve tempo?

Una serie di dialoghi stereotipati, banali, stanchi o dotati di eccessiva ovvietà, le riprese in soggettiva della strada, solcata a tutta velocità dall’auto guidata da Antoine, interpretato da un Jean-Pierre Darroussin qui al proprio minimo storico, che stridono brutalmente con la lentezza nel quale la stessa pellicola, non solo la vita dei coniugi Darroussin e Bouquet, è scivolata, completando il quadro di un film del quale, se non s’era capito, sconsigliamo la visione.

Curiosità
Il film è stato presentato in concorso al 54° Festival del Cinema di Berlino e ha ricevuto una nomination agli Independent Spirit Awards.

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