hideout

cultura dell'immagine e della parola

La caduta degli dei

La caduta degli dei

Simmetrie tra i mostri di Dusseldorf di Gianmarco Zanrè ********

Uno degli avvenimenti storici più analizzati dalla settima arte e dai suoi figli è, senza ombra di dubbio, la seconda guerra mondiale, con particolare riferimento ai crimini commessi da e in nome di Adolf Hitler: i recenti Schindler’s List (id., Steven Spielberg, 1993) e Il pianista (The pianist, Roman Polanski, 2002), osannati da pubblico e critica di tutto il mondo, sono soltanto gli esempi più eclatanti di quanti e quali sentimenti e interesse susciti questo periodo, così vicino a noi da mantenere ancora vivo e bruciante il suo ricordo, nei cineasti di tutto il mondo. Eppure, escludendo un fugace tentativo risalente al 1956, nessun regista tedesco si era mai confrontato con un argomento così delicato e scottante quale la figura di Adolf Hitler: Oliver Hirschbiegel sceglie di farlo attraverso i suoi ultimi giorni, quando, isolato in un bunker nel cuore del suo impero, il dittatore vide sbriciolarsi le ultime, folli speranze di una possibile controffensiva, giungendo, infine, a togliersi la vita, abbandonato anche dai più fedeli collaboratori, orientati verso una resa che al dittatore parve sempre inaccettabile. Fin dal periodo precedente la sua uscita (marketing?), complice la stroncatura illustre di Wenders, quest’opera ha suscitato scalpore profondo a causa di una presunta umanizzazione del leader dei nazional-socialisti tedeschi, uno dei più grandi criminali (e non solo in senso giuridico) di tutti i tempi. Eppure, nella straordinaria interpretazione di Bruno Ganz, incredibilmente coadiuvato dalla coppia Corinna Harfouch / Ulrich Matthes, è quasi disarmante quanto follia, crudeltà e dissociazione regnassero nelle menti del Reich: se lo scandalo sta nelle carezze di Hitler alla sua segretaria, o nei complimenti alla cuoca, forse occorrerebbe ricordare quante volte, nelle pagine di cronaca nera, serial killer siano spesso stati definiti come ottimi vicini, persone gentili e cortesi, di quelli sempre pronti a offrire il braccio agli anziani per attraversare la strada. Come fu per il capolavoro indiscusso del maestro Fritz Lang (M, il mostro di DusseldorfM, 1931), il terrore che queste persone hanno suscitato, suscitano e continueranno a suscitare sarà la loro normalità, e la conseguente, possibile associazione a noi stessi: Hitler, come noi, pasteggiava, conversava, aveva frequentazioni, una moglie, una segretaria, una vita. Più che stupirsi per la sua normalità, occorre non dimenticare ogni azione dettata dalla sua dissociazione.

Il film, tecnicamente e visivamente parlando, si presenta piuttosto bene, certo il miglior lavoro di un regista che, fino ad ora, non aveva mai regalato grandi gioie agli appassionati di cinema, considerando il suo passato al servizio della tv – quelle fiction che ora, in Italia, paiono purtroppo andare così di moda – e l’esordio sul grande schermo con The experiment (Das esperiment, 2001), certo un lungometraggio non indispensabile: eppure, pur se nervosa e con qualche concessione al grande pubblico, la sua regia appare diligente e ben supportata dall’inquietante fotografia di Rainer Klausmann, che regala i momenti migliori quando si concentra sul bunker. Buona anche la realizzazione degli esterni di combattimento, nonostante presentino, come fu per il già citato Il pianista, quella sgradevole sensazione di girato in studio un po’ troppo evidente. La segnalazione che più mi sento di fare, in ogni caso, parlando della parte tecnica, è legata alle immagini simmetriche disseminate nel corso della pellicola, spesso legate a momenti di solitudine o smarrimento – ottima associazione, in questo caso – di alcuni dei protagonisti: da grande appassionato di Stanley Kubrick non posso dunque ignorare tentativi come questi, pur riconoscendo, ovviamente, la diversa caratura dell’uomo dietro la macchina da presa, con buona pace di Hirschbiegel, che, a prescindere dall’operato o dalle doti, ha certo il grande merito di aver affrontato con maturità e intelligenza un tema che ancora brucia nel cuore del popolo tedesco e che, quasi una sorta di peccato originale, tornerà a perseguitarlo per anni ancora, nel futuro.

Microcosmi decontestualizzati di Caterina Lunghi ****

Aprile 1945: Adolf Hitler è rintanato con il suo entourage nel bunker che aveva fatto costruire a Berlino agli inizi degli anni Quaranta.
Incombe ineludibile sulla Germania la disfatta: ormai l’Armata Rossa ha ridotto la città a una montagna di macerie, nessuno sforzo di resistenza ha più senso.
La caduta, con uno stile più vicino alla fiction televisiva (dalla quale viene il regista Oliver Hirschbiegel, sua la serie Il commissario Rex) che a quello di più ampio respiro cinematografico, racconta questi ultimi giorni di vita del Führer e gli ultimi sussulti del nazismo.
Sotto la lente d’ingrandimento della macchina da presa c’è il microcosmo del bunker con il senso imminente del disfacimento e il nervosismo che dominano in ogni angolo.
E’ la Storia, la fine del Reich, spiata dal buco della serratura: le ultime inutili riunioni del gruppo dirigente del regime, i tradimenti, gli sfoghi di disperazione, gli ordini impotenti, gli attacchi d’ira, le ubriacature, il matrimonio del Fuhrer e di Eva Braun, il loro suicidio e quello a catena dei fedelissimi.
Ma al film manca il coraggio di andare fino in fondo, di mostrare, non solo di annunciarlo e lasciarlo presupporre, il suicidio di Hitler e il suo cadavere, quando invece si sofferma fin troppo su quello degli altri (si veda la lunga sequenza di Magda Goebbels che avvelena durante il sonno i suoi sei figlioletti).
E il finale di speranza, con l’immagine della segretaria di Hitler e il ragazzino tedesco che riescono a salvarsi e fuggire in bicicletta da una Berlino rasa al suolo verso una vita e un’era nuove, ripercorre modi già visti e scontati.

Un’operazione ambigua e pericolosa di decontestualizzazione storica delle follie e dei deliri di onnipotenza perseguiti e compiuti dal nazismo che, attraverso il racconto in prima persona della sua giovane dattilografa Traudl Junge, restituisce un’immagine deviata di un Hitler quasi più come vittima che carnefice.
Un tema delicato rappresentato con superficialità: chi si avvicina a questo film senza le conoscenze adeguate e gli strumenti critici sufficienti per saperlo guardare potrebbe, davanti alle farneticazioni e alle lagne di Hitler e dei suoi seguaci, non distinguere più il bene dal male.
Se non nelle didascalie finali dove si ricordano i sei milioni di ebrei sterminati (e, giusto per lavarsi la coscienza, Traudl Junge viene intervistata e dice di non aver mai sospettato nulla durante i suoi anni passati con Hitler), manca completamente alcun riferimento esplicito all’olocausto.
«La mancanza di un punto di vista del narratore porta gli spettatori in un buco nero nel quale in maniera impercettibile vengono indotti a vedere questo periodo dalla prospettiva del carnefice, per lo meno con una bonaria comprensione per lui» afferma il regista tedesco Wim Wenders a proposito del film.
Quello infatti che La caduta mostra è un Führer che fa compassione, che potrebbe addirittura suscitare empatia. Un Hitler colto nella sua debolezza fisica e mentale, nella sua consapevolezza della fine imminente, nella sua ordinarietà di uomo qualunque, di essere umano gentile e premuroso con le sue segretarie e con Eva Braun.

A vestire i panni di questo Hitler è Bruno Ganz, proprio l’angelo di Wim Wenders ne Il cielo sopra Berlino (Der Himmel über Berlin, 1987), ora spettro di un demone rinchiuso nel bunker sotto quella stessa città. Un demone qui così bonario e “umano”.
Dice lo storico Joachin Fest, biografo di Hitler e autore del libro La disfatta sul quale si basa la cronaca di questo film: «La cosa peggiore non è che Hitler fosse un mostro, ma che fosse un uomo. Il male fa parte dell’uomo: non possiamo scrollarcelo parlando di mostri». Quello che sconvolge è proprio ciò di cui parlava Hannah Arendt: la banalità del male.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»