Riflessioni sul tema dell’oltreuomo
Il corpo centrale di Raul – Diritto di uccidere è liberamente tratto dalle pagine di Delitto e castigo che lo scrittore Fëdor Michajlovic Dostoevskij ultimò nel 1866. Ma nel film dell’esordiente Andrea Bolognini (nipote del grande maestro del cinema Mauro Bolognini) la vicenda viene spostata temporalmente nel maggio del 1938, e non a San Pietroburgo, ma in una Roma che accoglie la visita di Hitler con una macchina organizzativa imponente, ben evidenziata dal documentario Luce che fa da prologo alla pellicola.
Questo cambio di contesto storico ha come prima, evidente finalità quella di sottolineare e attualizzare maggiormente la famigerata teoria del superuomo, che Raul (Stefano Dionisi), al pari del letterario Raskolnikov, intende mettere in pratica uccidendo “di diritto” una persona ritenuta inferiore: una vecchia usuraia (Laura Betti) presso la quale ha impegnato diversi oggetti di valore.
Una post-ambientazione che si rivela particolarmente azzeccata. E non solo in riferimento alle teorie di supremazia della razza ariana propugnate dal nazismo e dai devoti ascari del fascismo, ma perché orientata a illuminarci su tutte le attualissime teorie di morte “per giusta causa” che percorrono i terrorismi, le cosiddette “pulizie etniche” e le guerre preventive, di origine e natura assai diverse, ma sempre pericolosamente legate al denominatore comune del “vangelo della violenza”, graziosamente tramandatoci dall’oltreuomo nicciano e dai suoi sgangherati e successivi epigoni.
Per cui, approcciando il film di Bolognini, non dobbiamo compiere l’errore di addossarci troppo al periodo storico rappresentato, in quanto lo stesso non risulta che un pretesto indirizzato a una visione più panoramica, che a ben vedere si allarga sino ai nostri giorni. Questo non al fine di distoglierci dal giudizio sugli orrori del passato, ma, al contrario, per far sì che quegli stessi errori, mascherati da un moderno e accattivante lessico edonistico, vengano svelati dagli occhi della contemporaneità senza timori e incertezze. Memorie del passato come possibili segnali di pericolo del presente, insomma.
A parte quest’ottima impostazione semantica, però, Raul – Diritto di uccidere, a volte, difetta sul piano del racconto visivo per un’eccessiva indulgenza ritmica rivolta ai tempi lunghi di uno sceneggiato televisivo d’altri tempi. Una scelta anacronistica, quindi, che perfino il Cefalonia di Riccardo Milani, trasmesso su Rai Uno, ha contraddetto mostrando invece un serrato taglio filmico degno di nota. Forse, in tal senso, le infinite e pesanti riflessioni contenute nell’opera di Dostoevskij hanno finito per influenzare anche il racconto proposto da Bolognini. Il che, se da una parte può essere apprezzato e letto come una riproposizione di atmosfere dettate dal testo originario, dal punto di vista spettacolare sortisce solo l’effetto di un affaticamento del racconto per immagini che tende a sfilacciare la delicata tensione di un giallo psicologico.
Per contraltare, il film si avvale di una sceneggiatura rigorosissima e attenta a ogni minimo dettaglio sulla psicologia dei personaggi, non a caso a firma dell’inimitabile Suso Cecchi D’Amico, del figlio Masolino e di Luigi Bazzoni. Una sceneggiatura che ha il pregio di porre in rilievo anche i personaggi di contorno. Come l’ex combattente e alcolizzato Mariotti, splendidamente interpretato da Alessandro Haber, o la prostituta Sonia (Violante Placido) che con la loro disperata e dolente umanità riusciranno a dare un senso persino al profondo nichilismo di Raul. Figure sommesse, forse spente per sempre, ma a cui l’incanto della fotografia di Daniele Nannuzzi ridona colore e intensità con la stessa amorevole dolcezza degli acquerelli della Roma di Roesler Franz.
E poi c’è Giancarlo Giannini, il migliore di tutti. Perfetto come sempre. Padrone di una recitazione tagliente, secca, ma straordinariamente intensa per i mille risvolti psicologici che promanano dalla sua maschera. Sempre con un perché. E sempre con una risposta che tutti possiamo leggere dal suo volto che incarna quello del giudice Porifirio, che con il suo fare sornione attende, senza fretta, un’ineluttabile mossa falsa di Raul.
Il giudice Porfirio rappresenta la spada di Damocle che aleggia su tutta l’emblematica vicenda dell’assassino. Incarna il nostro senso comune e l’umana pietà che Raul si diverte a sfidare. In ciò, Giancarlo Giannini aggiunge un’impronta psicologica in più rispetto al James Stewart di Nodo alla gola (Rope, Alfred Hitchcock, 1948), che verteva sulle medesime teorie sul superuomo ora affrontate da Bolognini. Una comparazione tra questi film, a quasi sessant’anni di distanza, può essere quindi un valore aggiunto per la valutazione di un tema mai abbastanza analizzato e compreso.
A cura di Osvaldo Contenti
in sala ::