Nati per combattere
David Fincher, tra i più originali e innovativi registi degli ultimi anni, confeziona una splendida prova di dura e schizoide paranoia che ricorda più un videoclip che una pellicola. Merito sicuramente sia del montaggio di James Haygood, suo fedele collaboratore, ma anche di una sceneggiatura basata sull’omonimo romanzo scritto da Chuck Palahniuk, il quale trasse l’idea per Fight Club da una serie di esperienze personali che stavano facendo lentamente scivolare la sua vita nella piattezza della “normale”, ma quale in fondo non lo è, esistenza da operaio della catena di montaggio di un’officina di Portland, stato dell’Oregon.
Il film basa la propria originalità su un continuo cambio di registro: quando tutto pare definito si verifica un ennesimo sconvolgimento. Un uso delle riprese che colpiscono lo spettatore in pieno stomaco senza pietà alcuna, senza permettere il benché minimo senso di ribellione, senza consentirgli una via di fuga. Per tutto questo Fight Club è un esperienza unica del genere, un film differente da molti altri passati sul grande schermo e difficilmente riconducibile ad un solo genere: thriller, pulp, giallo… difficilissimo imprigionarlo in un ruolo o in un cliché.
La voce suadente, lenta, atona di un camaleontico Ed Norton, ne descrive la vita scandita da tutti quegli impegni che spesso, se non sempre, rappresentano uno degli standard che sezionano la vita di ognuno di noi: riunioni di lavoro, ore passate davanti la tv, in fila in posta o al supermarket, il tutto con un’unica semplice domanda finale: “Per quale ragione?”. Secondo Tyler Durden, un maiuscolo Brad Pitt, la ragione, ovviamente, non c’è. Tyler sconvolge la vita di questo mite e servile impiegato, narrandogli una serie di teorie di avversione e completa ribellione contro le multinazionali, contro il modello preimposto dai media e dalla società dei consumi sfrenati. Assieme all’amico, Tyler fonderà il Fight Club, una setta segreta le cui prime regole di esistenza stessa sono «Non dovete mai parlare del Fight Club» pena l’esclusione da quest’ultimo. Un luogo mistico ove si compie quotidianamente una forma, nemmeno troppo sottile, di combattimento fra uomini comuni, colletti bianchi e comuni passanti che non trovano più molte soddisfazioni in un’esistenza ben differente da quella che gli era stata proposta.
A completare l’opera di disfacimento, e successivamente rinascita, dell’ex – mite impiegato, si aggiunge la figura di un’Helena Bonham Carter che, abbandonato il suo aplomb british, si cala nel ruolo dell’assidua fumatrice Marla Singer, approfittatrice che vive un’esistenza marginale, non cercando la rivoluzione tanto decantata da Tyler, ma solo un modo di sopravvivere al meglio.
Nel complesso il film di Fincher rapisce per la trama di forte impatto emotivo – chi in fondo non vorrebbe prendere a pugni il proprio capo ufficio – per le teorie curiose, per la velocità della trama che coinvolge lungo tutta la durata della pellicola che brucia velocemente le oltre due ore di proiezione. Il risultato finale, impreziosito da una prova sopra le righe di Ed Norton, è di ottimo livello, pur lasciando un retro gusto di amara delusione per quel che infine contraddistingue la nostra società contemporanea.
Curiosità
Il personaggio interpretato da Edward ‘Ed’ Norton rimane privo di nome per tutta la pellicola.
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