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Quando il ritmo e il sorriso non bastano

Quando il ritmo e il sorriso non bastano

Dan Foreman, cinquantaduenne al servizio della rivista sportiva Sports America, si scontra involontariamente in uno dei corridoi con un giovane. Il suo nome è Carter Duryea ed egli è colui che andrà a prendere il posto come dirigente delle concessioni pubblicitarie, ruolo prima occupato da Dan, divenendo, in pratica, suo capo. Lo scontro avvenuto all’interno dell’azienda è emblematico: infatti Dan e Carter rappresentano due mondi, due generazioni a confronto, non solo sul piano lavorativo, rappresentato dall’esperienza accumulata nel tempo dal primo e dalla moderna formazione ma anche dall’immaturità del secondo, ma soprattutto sul piano delle proprie esperienze di vita. Se nella prima parte del film quest’ultimo scontro si manifesta solamente negli apprezzamenti o nel disgusto del sushi, è l’incontro tra Carter e Alex, l’incantevole figlia di Dan, a mettere i due in un’ulteriore clima di conflitto. Ma i personaggi interpretati da Dennis Quaid, l’elemento più positivo del film, e Topher Grace, riveleranno dei tratti comuni, a disprezzo dell’apparente abisso che li separa: spesso sentiremo pronunciare a uno dei due le frasi dette precedentemente dall’altro, fino ad arrivare alla certezza che Dan sia divenuto una sorta di padre per Carter, anche in questo caso sia sul piano lavorativo che su quello esistenziale.

Tra politiche societarie, marketing promozionale e sinergie lavorative, l’opera ultima di Paul Weitz sembra voler studiare i rapporti talvolta perversi presenti all’interno delle compagnie, dettate dal bisogno del raggiungimento del profitto massimo (ma non è sempre stato così?), a discapito delle conseguenze che un licenziamento porterebbe allo sfortunato dipendente. Contemporaneamente il regista (anche sceneggiatore) si concentra sulla precarietà che invade i giovani in queste prospettive lavorative: come Carter mette in dubbio il suo desiderio di lavorare in quel campo, allo stesso tempo Alex studia scrittura creativa ma pensa a una seconda laurea in economia. Insomma, Weitz si concentra sui rapporti, sulle relazioni e sulle problematiche del quotidiano. Il ritmo della commedia da lui creata regge, è incalzante. Le interpretazioni sono degne di nota (ricordiamo anche Marg Helgenberger, conosciuta per la serie C.S.I.), ma il film non riesce ad andare oltre a tutto ciò.
A noi la scelta quindi, se optare per centonove minuti di divertente distrazione con poco impegno o se evitarli. Personalmente la visione ironica dell’autore riguardo a problemi impegnativi potrebbe essere accettata, ma quando il perbenismo diventa esaltazione utopica di una realtà economica così differente (la good company appunto) allora la visione diventa irritante, e lascia pensare che quei centonove minuti avrebbero potuto avere un senso differente.

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