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cultura dell'immagine e della parola

L’esistenza e il nulla (seconda parte)

In Cari amici vicini e lontani, il protagonista è vittima dell’incidente automobilistico iniziale, certamente; ma è anche e soprattutto vittima dell’ipocrisia umana.
Autore, in vita, di un quiz televisivo, appariva in trasmissione come giudice di gara: appariva “in differita” dato che si trattava di un programma registrato. Per questo non si può dire che fosse in vita quando si mostrava al suo pubblico; o meglio, non era vivo quello che appariva di lui. Da qui l’inutilità di sospendere la trasmissione dopo l’incidente, di cambiare le regole del gioco.
Il gioco stava nel successo del programma e quindi nel creare un certo effetto. Ma l’effetto consisteva proprio nel sembrare “in diretta” quando “in diretta” non si era, a causa di una scala di valori per cui una trasmissione “in diretta” valeva molto più di una “in differita”.
Se l’autore del programma era morto per un tragico incidente e rimaneva solo la sua immagine televisiva, nella mente degli spettatori egli rimaneva in vita quanto prima, perché gli spettatori, quando guardano una trasmissione, credono a ciò che vedono.

L’ipocrisia, insomma, era affiorata nella decisione della rete televisiva di continuare a mandare in onda il programma, ma era affiorata anche altrove, nella “decisione” del pubblico di continuare a farsi coinvolgere dalla trasmissione.
Un inconsapevole gioco di squadra esprime la forza della finzione e la sua ambigua natura.
La finzione della rete televisiva era stata quella di chiedersi se fosse il caso di interrompere il programma, poiché era ovvio che nessuno lo avrebbe fatto veramente. La finzione del pubblico passava attraverso i meccanismi psicologici che lo riguardano. Meccanismi che toccano ogni uomo e che, ben lungi dal suscitare una valutazione morale, reggono il nostro mondo, un mondo fatto di tante realtà parallele caratterizzate ognuna da una logica diversa.
E poiché nell’epoca attuale a dominare non è la realtà “reale”, bensì quella televisiva, la realtà virtuale che ci accoglie a condizione del rispetto da parte nostra di determinate regole (psicologiche), non è la logica del primo tipo di realtà a prevalere, ma la logica del secondo tipo, quella fondata sull’apparire e non sull’essere, sull’apparire in quanto unico modo di essere.
Se ci si pensa bene, la vita di un uomo che compare sistematicamente in un programma televisivo registrato rimane tutta sbilanciata da una parte, dalla parte del pubblico a cui si rivolge attraverso una finzione, e da cui riceve in cambio consistenza e realtà.
Nella realtà televisiva la nostra immagine viene moltiplicata per il numero degli spettatori, a cui quindi dobbiamo render conto del nostro essere in una maniera tutta particolare e profonda, che è poi quella del rispetto delle regole del loro mondo.
Con un risultato inquietante.
E cioè: senza per forza scomodare Martin Heidegger, per il quale occorre combattere l’inautenticità dell’esistenza, allo scopo di far affiorare la vera essenza dell’uomo, il destino di quest’ultimo rimane legato alla sua immagine anche dopo la morte. Nel film il giudice di gara non riesce a morire, ma questo non deve suggerire una particolare forza del suo essere, in quanto il vero motivo del suo problema, quello di aggirarsi come un fantasma nel mondo televisivo da cui proviene, è una carenza di essere, ed è come se chi dipende troppo dalla sua immagine virtuale ne debba subire gli effetti negativi contro ogni logica della realtà “reale”.

Nonostante alcuni aspetti positivi, l’immagine può correre il rischio di diventare una vera e propria cultura capace di portare al nulla, ossia a quella mancanza di autenticità rappresentata all’inizio dell’episodio, con tono ironico, dalla difficoltà del conduttore della trasmissione di piangere la morte del collega, e di provare insomma sentimenti genuini per un uomo considerato amico sino a quel momento.
Tali cattivi sentimenti, che sono poi incarnati da un uomo malato nello spirito, perché il suo respiro, da cui spirito, è quello di un asmatico, sono il frutto di una cultura dell’immagine che ha perso il senso della misura, che è sprofondata nel nulla, in quanto l’immagine ha smesso di fare da rimando a qualcos’altro diventando fine a se stessa, come se la finzione potesse alimentarsi da sola, oppure non fosse vero il contrario, sino ad uccidere chi ne ha abusato.
È quello che succede al conduttore: muore perché tiene in vita una grande finzione con le sue sole forze.
Il dominio della finzione rappresenta la sconfitta dello spirito e sconvolge la logica della realtà in maniera inaspettata, trascinando nell’abisso chi pensa di aver raggiunto il successo.

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