Eroi, supereroi, antieroi
Dopo Shrek (id., Andrew Adamson, Vicky Jenson, 2000) e Gli Incredibili (id., Brad Bird, 2004), con Robots il cinema d’animazione torna a ragionare sulla figura dell’eroe. Non stupisce che sia proprio l’animazione a riflettere su questo tema: ambito cinematografico in cui più di altri si ricorre al fiabesco e a modelli di storia-archetipo, è naturalmente portato a osservare il protagonista primario: l’eroe.
Shrek ha dimostrato anche la capacità del cinema d’animazione di sperimentare sulle proprie strutture, realizzando un’anti-fiaba, il cui protagonista non poteva che essere un anti-eroe: un orco brutto, misantropo e grasso. L’ingegnosità del meccanismo di Shrek sta nel far parteggiare lo spettatore per l’orco cattivo, e nel celebrare il mancato scioglimento dell’incantesimo come un autentico happy ending, il tutto all’insegna di un’ironia che sfiora la farsa, e che in Shrek 2 (id., Andrew Adamson, Kelly Asbury, Conrad Vernon, 2004) si riafferma come satira della società hollywoodiana.
A confronto di questa tesi Gli Incredibili propone una teoria opposta: l’eroe è colui che è dotato di superpoteri, e la natura gli conferisce la capacità e il dovere di salvare gli altri. Di pari passo è inutile per il supereroe rifiutare il proprio ruolo, così come è scorretto da parte della società chiedergli di accantonarlo. Non è difficile ricollegare questa affermazione a Spiderman 2 (id., Sam Raimi, 2004) , film che è oltretutto esplicitamente citato dagli Incredibili. Probabilmente sarebbe semplicistico attribuire il passaggio da una tesi tanto sovversiva a una tanto reazionaria unicamente agli eventi dell’11 settembre, tuttavia l’associazione risulta pressoché inevitabile.
In questo contesto Robots racconta la più classica delle storie hollywoodiane: il compimento del sogno americano. Rodney, robottino assemblato con pezzi di scarto, raggiungerà il traguardo prefissato contando solo sulle proprie forze. Il pregio di Robots è racchiuso nel tentativo di condurre un discorso sociale che prende le parti di chi è nato sfavorito, accusando quei privilegiati che vogliono conservare il proprio potere. Il difetto è che muta questa buona morale in una sentenza buonista, diluendola in una storia prevedibile e condendola di slogan facili (“Risolvere i bisogni degli altri”). Non c’è complessità in Robots, tutto è appiattito: i buoni e i cattivi sono opposti in maniera manichea, rendendo semplicistico il modesto tentativo di critica sociale. E l’impianto della sceneggiatura corrisponde a quello visivo: un’animazione tecnicamente raffinata e capace di definire i dettagli di ogni materiale che compone gli amici robot, ma priva di vera innovazione visiva e poetica. Quella che rende il cinema d’animazione davvero in grado di stupire.
Curiosità
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A cura di Fabia Abati
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