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Prima ti seduco e poi t’illudo

Prima ti seduco e poi t'illudo

Se Casanova, o Don Giovanni, fossero vissuti nella Londra hippie del XX secolo avrebbero avuto, sicuramente, il volto di Alfie, ovvero quello di un egocentrico playboy privo di moralità, degno di scelte che lo portano sempre a giungere alla via più facile e voloce per placare il proprio ego smisurato e per curarsi semplicemente di se stesso e non delle esigenze altrui.

Per l’Alfie di Caine non si può che provare una profonda sorta di disprezzo mista a pena, per un incolmabile vuoto che lo accompagna. Vuoto che viene enfatizzato dall’uso freddo e distaccato con il quale Alfie osserva, nel corso della pellicola, l’obiettivo per parlare delle sue conquiste. Artefizio impiegato successivamente da Woody Allen in Io e Annie (Annie Hall, 1977) ma che in quel caso venne utilizzato per far interagire i protagonisti in una sorta di limbo nel quale si spostavano per strappare risate. Nel caso, invece, del film di Gilbert, qui anche nel ruolo di produttore, l’impiego della ripresa in soggettiva è esclusivamente a favore di Alfie, pronto a spiegare come egli giudichi in maniera vuota e distaccata la vita affettiva, infarcendo il discorso di frasi ripetute all’infinito in una forma intercalare quanto mai sgradevole: «…. non so se mi spiego», con il quale introduce ogni suo discorso sulle «picchie», termine gergale con il quale apostrofa le donne, «dolls» nella versione originale.
Entro la fine del film però anche per quest’inguaribile e cinico donnaiolo vi sarà la peggiore delle leggi del contrappasso contro la quale chiunque deve, prima o poi, misurarsi, ovvero una repentina presa di coscienza.

Una splendida colonna sonora per i veri appassionati di jazz, firmata da Burt Bacharach e Sonny Rollins, una serie di bellezze dell’epoca che di volta in volta si abbandonano fra le braccia di Alfie, che si chiamino Gilda, Siddie oppure Dora e, ovviamente, Michael Caine, all’epoca trentatreenne, poco conosciuto sul grande schermo, ma celeberrimo per l’interpretazione teatrale di questo proletario con grande voglia di riscatto, completano una splendida pagina del cinema British dei sessanta. Pagina difficilmente rappresentabile in epoche differenti, se non correndo il rischio di snaturarne il senso ultimo. E’ questi difatti il caso del recente film di Charles Shyer e interpretato da Jude Law (Alfie, 2005). In questa nuova trasposizione si rischia di provare più volte una forte simpatia per Alfie, un ragazzo alla moda e non certamente dotato del cinismo, della spietatezza e del dandysmo proletario di Caine.
Il film del 1966 risulta invece essere una pellicola fin troppo attuale, densa di contenuti e motivazioni per i tanti, troppi concentrati di Alfie che anche quest’oggi si aggirano fra le pieghe della società, forse non con lo stesso cinismo, ma sicuramente con la faccia tosta di chi sa di non sapere.

Curiosità
Il film è basato sull’omonima piece teatrale firmata da Bill Naughton, qui nel ruolo di sceneggiatore, portata in scena con grande successo da Michael Caine.

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