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La crudele voglia di essere felici

La crudele voglia di essere felici

Crudele e spietata la voglia di essere felici. La convinzione di assaporare i propri desideri: a che prezzo?
Ognuno racconta quello che può: Paul Verhoeven aveva inquadrato il soggetto in ambito contemporaneo con Showgirls (id, 1995): peccato per il risultato fintamente erotico, per la cattiveria a fini televisivi, e per la sceneggiatura adolescenziale.
Anche le nostre casalinghe di Rivombrosa avevano percepito e dato come vincitore la sottile domanda del lignaggio, della nobiltà, dell’arrampicamento sociale.
Viva ripudiare la propria origine, ma sia chiaro, non solo per il fascino di una vita più agiata. Il quadro-verità di William Thackeray non punta il dito sulla figura centrale del quadro (Becky Sharp – Reese Whitherspoon), ma segue la macchia d’olio delle pennellate che, nel complesso, danzano impunemente contro. È uno sguardo realista del suo tempo, dominato da grandi cappelli e spille a vista, parrucche lasciate sul pavimento e Waterloo sullo sfondo.

Quello che ci interessa è l’appagamento, è il prezzo di un desiderio da conquistare. Manca quella centralità della scala sociale evidente in Samuel Richardson (Pamela), ma si riconduce a tutto quel domani è un altro giorno di Rossella, o al più facile rovescio della medaglia (che ricorda Jorge Luis Borges, Aleph).

La regista prova a cucire un vestito letterario che parte dall’Inghilterra e si ferma a Calcutta (è un caso? È riconducibile l’esperienza indiana dello scrittore?), ricostruendo le atmosfere di stagioni e non di luoghi: il tempo si ferma tra le foglie e i templi indiani.
Come per magia, la sua esperienza biografica si riconduce a quella di Becky, e indirettamente a quella di Thackeray: i sogni sono ereditari, e hanno un prezzo. Dimenticato questo fattore, non rimane altro che dimenticare la vanità della vita e detenere il proprio passato.
Mira Nair sottolinea l’importanza del riscatto, ma anche del ricatto: solo se assapori quello che cerchi, allora sarai felice.

La risposta forse non c’è, e non è possibile essere categorici: la valigia che apre Becky è la stessa valigia che tiene tra le mani alla fine e le stagioni impertinenti che chiudono questo racconto baciano di grazia un film delicato, forse troppo delicato: le parole che sussurra – io amo, a modo mio – sottolineano una banalità fortemente sottolineata da Mira Nair: i desideri portano alla felicità?
Ai Costantino televisivi l’ardua sentenza?

Curiosità
Mira Nair ha vinto con Monsoon Wedding (id., 2001) il Leone d’oro al Festival di Venezia segnando un record: era infatti il primo film indiano che vinceva la competizione dopo 44 anni, ed è stato uno dei dieci film stranieri campione di incassi di tutti i tempi negli Stati Uniti.

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