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cultura dell'immagine e della parola

Bentornato Gaylord

Bentornato Gaylord

Metti una sera a cena
Il tema è uno dei più sfaccettati e prolifici che il cinema americano abbia mai avuto e, a pensarci bene, costituisce una nicchia che viene periodicamente riscoperta e adattata al genere di turno come un vestito che non passa mai di moda. Ci sono i precedenti illustri come Il padre della sposa (Father of the bride, Charles Shyer, 1991 e Vincente Minnelli, 1950) e quelli comico-demenziali di American pie – Il matrimonio (American wedding, Jesse Dylan, 2003) ugualmente fruttuosi al botteghino, c’è poi il successo della prima pellicola (Ti presento i miei, Meet the parents, Jay Roach, 2000) che va bissato e, sebbene Ben Stiller formi con De Niro una accoppiata vincente, si decide di aggiungere carne al fuoco e così la famiglia si allarga. Arrivano Dustin Hoffman e Barbra Streisand, ma i posti a capotavola sono solo due e di diritto spettano ai “mostri sacri” (Hoffman e De Niro naturalmente). Gli equilibri, come ci si aspetta, cambiano e i due “Titani” finiscono per oscurare Stiller, costretto a ritagliarsi brevi ma intense pillole di comicità salvo poi fungere da spalla agli altri due. Il film nel complesso non ne risente, colmo com’è di trovate al limite della comica legalità, semplicemente si passa dal conflitto generazionale frizzante e competitivo della prima pellicola a quello hippy-yuppie della seconda, che evita di sembrare stantio solo grazie all’interpretazione della coppia Hoffman – De Niro e a una scelta discutibile del registro linguistico.

Giusto compromesso o caduta di stile?
È un dato di fatto che molte scene e trovate comiche si incentrino su un uso del linguaggio ai limiti del volgare. Questa scelta, da un lato giustificata dalla caratterizzazione dei nuovi personaggi (Roz e Bernie Focker) e dalla riuscita di sketch comici altrimenti evanescenti (si veda la scena in cui Piccolo Jack pronuncia la sua prima parola), risulta in più di un caso forzata e fuori tempo rispetto al ritmo del dialogo. Il doppiaggio stesso, che nel complesso esalta il lavoro degli attori, finisce per essere, in questo contesto, penalizzante e goffo rispetto ai frequenti giochi di parole, più d’uno di dubbio gusto.
Dopotutto è un film che fonda la sua comicità sugli eccessi e come tale finisce per eccedere anche nell’uso del linguaggio così come degli spazi, dei colori e dei costumi (si veda il camper di Jack Byrnes). A cominciare dai luoghi delle riprese (Miami prevalentemente) fino alle camicie hawaiane di Hoffman o alle scollature della Streisand, tutto viene frullato dal regista in un cocktail di opposti e in un turbinio di situazioni comiche in cui anche cani, gatti e poppanti vengono a reclamare un siparietto. Ritmo sempre alto dunque per una pellicola che, colpi bassi o no, strappa più di una risata e dimostra che il potenziale del cast e della sceneggiatura è stato tutto sommato ben sfruttato. Rimane difficile pensare che il finale, lieto per obblighi di sceneggiatura, non sia in realtà che un “arrivederci alla prossima puntata”.

Curiosità
Alanna Ubach, che interpreta il ruolo della bambinaia che ha allevato Greg Focker, Isabelle, è in realtà dieci anni più giovane di Ben Stiller.

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