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Un lungo film senza passione

Un lungo film senza passione

Jean Pierre Jeunet è un regista che ama stupire. Dopo gli esordi surreali di Delicatessen (id, 1991) e La città dei bambini perduti (La cité des enfants perdus, 1995) aveva saputo dare una prima svolta alla sua carriera con il quarto seguito di Alien (Alien: Resurrection, 1997), e darne una ancora più importante con il film con cui oggi viene maggiormente identificato, Il favoloso mondo di Amélie (Le fabuleux destin d’Amélie Poulain, 2001)
Quello che ci si aspettava da Jeunet dopo un film così unico era una nuova svolta, la dimostrazione di sapersi mettere in gioco senza dover per forza richiamare in causa un piccolo gioiello come era Il favoloso mondo di Amélie. Una lunga domenica di passioni, invece, ripropone la stessa struttura del film precedente, ma non avendone la stessa forte sceneggiatura, non sa reggerne il peso.

Tutto è già chiaro all’inizio. La stessa voce fuori campo a descrivere i personaggi. Lo stesso tono sereno anche nel raccontare fatti drammatici. Persino gli stessi attori.
Jeunet, presentando Il favoloso mondo di Amélie, aveva ammesso di avere in mente tante di quelle scene da poter girare un’intera serie su quel personaggio. Per il nuovo film ha quindi pensato bene di prendere come spunto il romanzo epistolare di Sébastien Japrisot e di trasformarlo in un’Amélie 2. Di Amélie Mathilde infatti potrebbe essere la nonna, un po’ più acida ed egoista, in un mondo che favoloso non è per gli altri, ma lo sarà probabilmente per se stessa.
Superata la prima mezz’ora di presentazione, il film inizia la sua vera e propria storia, con Mathilde alla ricerca del suo amato. Proprio nel rapporto amoroso tra la protagonista e Manech sta un’altra grande pecca del film. Continuando il confronto ormai inevitabile con il film precedente, se là il rapporto riusciva mantenersi sul filo tra il romantico e lo sdolcinato, qua, messo anche a confronto con la crudezza della guerra, sembra sempre finto e talmente mieloso da rischiare di mettere in fuga non solo i diabetici. La parte che riguarda le indagini di Mathilde è invece eccessivamente macchinosa, andando a coinvolgere una marea di personaggi e svelando una sceneggiatura che a tratti appare fin troppo “costruita”.

Un film da buttare insomma? Forse no. Non conoscendo la precedente filmografia di Jeunet, si potrebbero trovare moltissimi elementi positivi nel film. La fotografia pastello in grado di ben descrivere la Francia di inizio novecento. Il montaggio che utilizza split screen e inserti in digitale senza risultare mai pesante. La prova degli attori, soprattutto dei caratteristi, sempre all’altezza. La bellezza di Marion Cotillard, una sposa in nero da far impallidire Jeanne Moreau e Uma Thurman.
Ma mi spiace, da quel gran matto che è Jean-Pierre Jeunet, questa volta, ci si aspettava davvero qualcosa di più.

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