La doppia vita di Melinda
Il cinema di Woody Allen è da sempre infarcito di figure meta-narrative che incarnano lo spirito e la poetica dell’autore. Basti ricordare l’uso del falso documentario di Zelig (id., 1983) o il coro greco di La dea dell’amore (Mighty Aphrodite, 1995). Ma sono le numerosissime figure di scrittori e creativi (cinematografici / letterari / teatrali) a spiccare nella filmografia del regista New Yorkese e a descriverne meglio, oltre che in modo decisamente più esplicito, il proprio way of thinking.
In questa prospettiva Melinda e Melinda è sicuramente il film più concettuale e teorico partorito da Woody Allen negli ultimi anni. Lo spunto offerto dell’improvvisa apparizione di una donna di nome Melinda permette un puro esercizio di stile, degno di Quenau, a due drammaturghi, appartenenti all’upper class più snobistica, di esporre attraverso l’ipotetica narrazione dello sviluppo narrativo dell’antefatto, le proprie teorie a proposito dell’ontologia di tragedia e di commedia (e quindi quelle di Allen e collaboratori). Seduti al tavolo di un ristorante i due intellettuali si affrontano così in un duello di immaginazione, senza vincitori né vinti, a costruire la propria piéces evidenziandone i una volta i toni potenzialmente drammatici, una volta quelli comici.
Melinda per due differenti volte interrompe una riunione conviviale, entrambe accomunate dalla presenza dei medesimi attori che recitano parti dalle differenti caratterizzazioni, così entrambe le cene sono preparate con lo scopo di ottenere un lavoro ma in un’occasione si tratterà di una parte per un attore sull’orlo del fallimento, nell’altra di un finanziamento per un film femminista. Melinda è l’elemento di rottura dello stato di quiete, la mano che rompe la superficie a specchio e che agita le acque, che sconvolge la routine (se di routine si può parlare per chi fa shopping sulla 5° strada…) e cambia i destini dei protagonisti dello show, perché di teatro si tratta essendo la vicenda intera frutto della fantasia di due scrittori teatrali. Ma forse è solo vita reale…
Il gioco dell’intreccio di due vite di Melinda è bene organizzato, ma sostanzialmente appare poco innovativo (Sliding Doors – id.,Peter Howitt, 1998 -, Lola Corre – Lola rennt, Tom Tykwer, 1998 – e soprattutto La doppia vita di Veronica – La double vie de Véronique, Krzysztof Kieslowski, 1991). Questa virata Kieslowskiana di Woody Allen, spesso propenso a riverire i suoi maestri come fu per Bergman in Interiors (id., 1978), potrebbe essere considerata poco più che un gioco intellettuale in emerge il prifilo narcisista di chiunque si reputi artista, in quanto lavora per un pubblico che gli tributi degli applausi. Allen è forse uno dei registi più arguti in circolazioni, disposto all’autocritica personale e della propria classe sociale, e come ha abituato il suo pubblico, quello che gli tributa applausi, dimostra di saper costruire storie convincenti e brillanti, oltre che intelligente, ma non può che essere considerato un Allen di routine, infatti, da cui ci si aspetta un guizzo in più rispetto ad un film che può essere valutato dalla frequenza delle battute messe in bocca agli attori dal nostro buon regista/umorista.
A cura di Carlo Prevosti
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