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cultura dell'immagine e della parola

Ombre nell’aldiqua

Ombre nell'aldiqua

L’ultimo film di Jonathan Glazer (Sexy Beast, 2000), sceneggiato da Jean-Claude Carrière (diversi film di Buñuel e una collaborazione per un libro con il Dalai Lama sul tema della reincarnazione) contiene vari elementi della fiaba classica: lo straniero che sconvolge una situazione tranquilla, la principessa sola, una famiglia solida e un amore impossibile. Va da sé la scelta e l’intervento sullo scenario: una New York avvolta da un’aura di mistero, una sorta di arcano regno da favola come metafora del mondo, dove ci s’imbatte in oasi di benessere, corti pacifiche e patinate (Upper East Side), bassifondi malfamati e foreste gotiche (Central Park) che ci sembrano infestate da ombre e presenze invisibili.

Torna in mente il video degli UNKLE, Rabbit in Your Headlight, dello stesso regista, per il tema del paranormale usato come veicolo, (o auto-pirata, vedi videoclip di cui sopra) che conduce ad altro, al cuore del film: i sentimenti e la fede in un amore assoluto nel caso di Birth, incomprensione, paura e rabbia nell’esempio del video. Affiorano dalla memoria altri clip, tra cui Karmacoma, A song For The Lovers, Virtual Insanity e lo stesso R.I.H., per l’ingombranza fisica delle ambientazioni, e il soffocante effetto cellophane sull’agire dei personaggi.

Ma torniamo ai personaggi della fiaba. Lo straniero è una figura minuta e inquietante che scorrazza come un’ombra dentro lo schermo e sconvolge la cornice familiare fortificata della vedova Anna (Nicole Kidman), in procinto di sposarsi nuovamente. Il suo sguardo doppio e ancestrale si posa su personaggi e pubblico, ricettacolo e repellente per lo sguardo adulto. «Io mi chiamo Sean», dice il bambino. L’attore è Cameron Bright (Godsend, Nick Hamm, 2004; Butterfly Effect, Eric Bress e J. Mackye Gruber, 2004), canadese di nove anni, occhi celesti, strizzati da massicci zigomi che riflettono la luce (o il buio?) di un’anima adulta, quasi a proiettare e allo stesso tempo assorbire la vista da (e verso) dimensioni parallele, dalla vita verso la neovita.

Birth è una fiaba ben orchestrata che tiene il gioco fino a dieci minuti dalla fine, quando sembra implodere su se stessa, spezzando il trucco estremo e spiazzante del soggetto. Eppure tira l’ultimo colpo di reni poco prima dei titoli di coda, con una nota finale (la lettera di Sean) che lascia l’interrogativo spalancato. In un crescendo di aspettative, la supposta narrazione minimalista e sofisticata al contempo, e quel colpo di scena risolutivo alla M. Night Shyamalan (The village, 2004) su cui si sperava, vengono a mancare. L’incantesimo alla fine non viene spezzato.
Birth è un film difficile da approcciare. È arduo affermare se sin dall’inizio abbiamo scoperto un siparietto su una sceneggiatura debole, a tratti imbarazzante, o se invece Glazer è riuscito a incarnare nella messa in scena una sensazione, umana e pregnante: il potere immenso e inarrestabile dell’ “aldiqua” del sentimento, più che le imperscrutabili mosse delle ombre giunte dall’aldilà.

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