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cultura dell'immagine e della parola

Essere o apparire: l’eterno dilemma delle immagini

Essere o apparire: l’eterno dilemma delle immagini

Un cast eccellente, una produzione indipendente, diretto da un regista esordiente, ma che vanta un passato da produttore di film del calibro di Insider – dietro la verità. Chiunque sarebbe indotto a pensare che probabilmente possa valere la pena andare al cinema a vedere di che si tratta. Una volta in sala, quando ormai è troppo tardi, solo allora, si svela l’inganno. Ci si rende conto che del thriller psicologico non vi è alcuna traccia e che addirittura vengono violate le regole basilari della suspance.

Proprio come l’ostaggio del film, (che non crede al suo rapitore non solo perché ha il volto scoperto e dà evidenti segni di squilibrio, ma soprattutto perchè strappandosi i finti baffi, si priva di quell’esile camuffamento che avrebbe potuto alimentare in lui una minima speranza di salvezza), sin dall’inizio lo spettatore avverte l’impossibilità di credere a ciò che vede e sente. Tanto per le immagini quanto per i dialoghi, di fronte alle situazioni evocate, allo spettatore è negata la possibilità di immedesimarsi nelle storia troppo statica e priva di reali colpi di scena. Il regista ricorre addirittura a un evidente uso della camera a mano per filmare la colluttazione tra rapito e rapitore, ma anche quando riesce ad animare l’azione, ecco che subito tutto è vanificato da una regia che anticipa, svela tutto e rivela troppo.

Chi guarda si ritrova (co)stretto a essere un passivo voyeur. Dovrebbe trarre piacere nell’assistere dall’esterno ai drammi interiori, psicologici e familiari di questo thriller, che sembra più un dramma, visto che comunque non gli è dato di provare altra “emozione”.
J. P. Brugge sul finale prova a riscattarsi, o forse invidia alla commedia un lieto fine (?). Qui davvero si supera nella commistione dei generi e sorprende tutti con un escamotage degno di una soap-opera stile Beautiful: dopo averlo fatto morire nella foresta, riesce addirittura a far rivivere l’ostaggio. Il magnanime assassino, arrestato poi per le troppe distrazioni, spedisce cortesemente alla vedova un bigliettino scritto dal marito all’inizio della sua prigionia. Sono le dolci parole a evocare nella mente della donna l’immagine intima e profonda di Redford, che le sorride teneramente per l’ultima volta, per un finale strappalacrime (forse?), ma comunque insolito per un thriller!
Più probabile che il regista non sapesse come risolvere la sua storia, le tante trame lasciate aperte, o i troppi elementi seminati e mai raccolti proprio in quella stessa foresta, luogo (comune) filmico e metaforico di prigionia e smarrimento , in cui finisce col perdersi lui stesso.

Ambiguo e deludente, questo film lascia troppe perplessità che rivelano una sostanziale fragilità strutturale e ne svelano il tentativo di mascheramento per mezzo di un cast dai nomi scintillanti. Le troppe aspettative che induce gli si ritorcono contro come una letale arma a doppio taglio. Lo spettatore, al pari del ricco R. R., viene preso in ostaggio ingannato da una visione ostica. Arnold Mack, il rapitore senza scrupoli, usa false fotografie e approfitta dello shock creato dalla loro visione per trarre in scacco la sua vittima, pensando unicamente al suo obbiettivo/ossessione: il (bi)sogno di denaro. Il meschino trucco sembra riflettere specularmene quanto fa Brugge. Il produttore che ha deciso di fare il regista, sfrutta un cast che vanta nomi d’eccellenza, una etichetta di “produzione indipendente” (che gode della luce riflessa di R. R., ideatore del Sundance, il più importante film festival indipendente americano) per costruire una bella messa in scena promozionale-pubblicitaria e spacciare, invece, un prodotto commerciale. Attraverso una sorta di meccanismo tipo “specchietto per le allodole” trae in inganno i suoi spettatori, li prende in ostaggio, ignari e inconsapevoli di dover assistere persino a un vero e proprio spot pubblicitario. Confezionato secondo le regole del product placement del marketing americano, è inserito proprio nelle scene iniziali, tanto bene che la sceneggiatura gli riserva anche un dialogo ad hoc. Peccato che il botta e risposta tra i due attori sia assolutamente inutile e ingiustificato ai fini della storia, ma strettamente necessario per inserire addirittura il nome del prodotto all’interno. A questo punto il dubbio è lecito, la domanda sorgerebbe spontanea, ma la risposta è così esplicita e immediata da non darle neanche il tempo di sorgere, che è già certezza: il tutto sa troppo di una trovata commerciale.

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