Toccando l’invisibile
Vedere con le dita. La tattilità dello sguardo diventa il punto d’arrivo del protagonista Tae-suk e si pone come chiave di lettura del suo rapporto con Sun-hwa. Il loro incontro nell’ennesima casa vuota si limita a un semplice scambio di sguardi senza che venga pronunciata parola. Il loro amore vive di pura visione, di immagini dell’altro e della consecutiva appropriazione fisica di tale immagine. Insieme occuperanno per qualche ora delle abitazioni private, tentando di riempire il senso di vuoto lasciato per poi venire, infine, scoperti e separati. È nella separazione dalla ragazza, nella solitudine di una cella, che Tae-suk capisce che tutti i suoi tentativi finora escogitati per colmare dei vuoti erano vani, poiché solo l’invisibilità, o meglio, la non-visibilità, avrebbe potuto colmare l’infelicità di quel vuoto. È questa la fase terminale del suo percorso di iniziazione verso l’(in)afferrabile, che termina con l’appropriarsi della capacità di vedere, rappresentata da un occhio disegnato sulla sua mano: la tattilità dello sguardo, appunto.
Raggiungendo l’essenza di non-visibilità, Tae-suk si appropria della visione soggettiva della macchina da presa, divenendo personificazione del cinema di Kim Ki-duk. Per il regista l’invisibilità caratterizza e amplifica le potenzialità dell’arte cinematografica, la quale, come ogni forma arte, non può essere intaccata, concetto efficacemente rappresentato nelle prime immagini del film, quando una statua (il cinema) è protetta dalla materialità dei colpi inflitti da una pallina da golf. Il cinema di Kim Ki-duk diventa ombra che è possibile solo sfiorare, come la mano di Sun-hwa che cerca la proiezione del corpo di lui nella parete alle sue spalle. E, infine, come l’amore dei due, in bilico tra la magia onirica e il contatto carnale, il cinema si carica di un’infinita leggerezza. I corpi dei due protagonisti, insieme, in piedi sulla bilancia, hanno un peso nullo, e l’autore ci abbandona all’immagine con un messaggio: «Non è dato sapere se il mondo in cui viviamo è sogno o realtà». Ferro 3 – La casa vuota è l’esemplificazione dell’abbandono di ogni forma di interrogativo, l’abbandono dell’esigenza di una certezza per l’accettazione di una condizione: il voler nutrirsi di questo mondo (il voler nutrirsi di cinema), realtà o sogno che sia.
Curiosità
Il titolo Ferro 3 è riferito alla mazza da golf n° 3, la tipologia di mazza meno usata nel golf. A tale proposito il regista ha detto: «In questa immagine vedo la metafora di una persona abbandonata o di una casa vuota. Al tempo stesso è però anche l’arma con cui Tae-suk salva Sun-hwa, diventando così il simbolo della speranza di un cambiamento».
Bin-jip si è aggiudicato alla 61a Mostra Internazionale di Arte Cinematografica di Venezia il Leone d’argento – Premio speciale per la regia e il Leoncino d’Oro – Premio Agiscuola.
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