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I figli dell’esilio

I figli dell’esilio

Tony Gatlif, regista di origine algerina, trasferitosi in Francia sin dagli anni 60, con Exils compone un mosaico di volti, etnie, lingue, suoni, ritmi, musiche, luoghi e paesaggi così diversi da impegnare allo spasimo quasi tutti i nostri sensi in un percorso multimediale che porta i due protagonisti del film, i giovani Zano e Naima, a solcare, in un viaggio che definiremmo della memoria, il lungo tragitto che porta da Parigi ad Algeri, passando per l’Andalusia. Esattamente l’opposto di quello compiuto decenni prima da entrambi i genitori dei ragazzi costretti all’esilio dal territorio nord-africano.

Questa ricerca di memoria perduta impegna i ragazzi in una catarsi di diverso genere: psicologica per Zano, aristotelica per Naima. Infatti, Zano, per sconfiggere le proprie ansie sarà intimamente disposto, sin dall’inizio del viaggio, a rivivere anche con dolore gli eventi remoti che lo legano ai genitori. Un’inconscia autoterapia che risulterà vincente. Naima, invece, più libertaria e ribelle, dapprima sarà assolutamente riluttante a identificarsi con un passato dal quale si sente completamente sradicata per cultura e per temperamento sessuale. In seguito, come rapita da un ancestrale anelito di purificazione, si sottoporrà volontariamente alla cerimonia della confraternita Sufi, un rituale accompagnato da un ritmo musicale ossessivo, una specie di tragedia del corpo, scosso da una trance attiva e violenta che ha il compito di mettere in contatto il mondo terreno con quello sovrannaturale.

Quella della cerimonia Sufi è la scena clou del film e anche la più intensa e significativa. In essa si condensa il messaggio principale che Gatlif intende trasmetterci: Naima siamo noi, noi occidentali. Incapaci di avere una fede realmente vissuta. Sprezzanti di fronte a una cultura che non faccia il paio con la nostra. Incuranti del nostro passato come se questo non ci appartenesse. In sintesi, un severo monito rivolto alla nostra sicumera che avanza insieme ai carri armati dell’arroganza sul suolo di fine cristallo delle tradizioni con la pretesa di non recare alcun danno.

Gatlif, nella scena della cerimonia, esprime il massimo delle sue capacità anche dal punto di vista stilistico, con una semplicità di riprese che lascia stupefatti. Dove altri avrebbero indugiato con delle inquadrature a effetto, il regista algerino si limita a esserne l’osservatore distaccato, quasi documentaristico. I volti, le espressioni, i corpi e le movenze di quel rituale (che l’autore ci dà per autentico), risaltano per intrinseca potenza espressiva, perché emanano delle ataviche radici dissepolte e non per insistita manipolazione tecnica. Un saggio di antropologia culturale formato celluloide, insomma, ma senza l’eccessivo primato della forma sul contenuto.

Partendo da questi presupposti relativi allo stile cinematografico, è legittimo chiedersi come potremmo definire Gatlif. Un neo-neorealista nel solco della tradizione italiana? Un seguace del cinema-verità di scuola francese? Un semplice documentarista? In realtà, il nostro, per sua fortuna e nostra, sfugge a ciascuna di quelle categorie. Perché le incarna tutte e tre!
Con l’aggiunta di una giusta dose di fiction, che in teoria dovrebbe togliere amalgama al cocktail, ma che in realtà aggiunge il gusto del racconto moderno alle scuole cinematografiche d’un tempo, il regista di Exils è ben attento a mixare le sequenze di genere più affine: le fasi neorealiste si agganciano alla fiction pura, quelle documentariste al cinema-verità. Una quadratura del cerchio che se per altri registi è risultata velleitaria, per Gatlif acquista la cifra ritmica di un brano che incorpora sonorità tradizionali e moderne.

Proprio come la traccia musicale che accompagna quasi incessantemente tutte le tappe geografiche del film. Brani, composti dallo stesso Tony Gatlif assieme con Delphine Mantoulet, che hanno il compito non già di favorire un semplice sottofondo musicale, ma una formula di passaggio da una cultura all’altra. Un’idea niente male che in teoria ci permetterebbe di seguire il film a occhi chiusi, intuendo i luoghi e i paesi raggiunti da Zano e Naima mediante un semplice riconoscimento auditivo. Provate a cogliere tutto questo, magari a una seconda visione della pellicola. Credo che Gatlif approverebbe.

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