L’oscuro oggetto del desiderio
Tremano le gambe e prudono le mani quando si sentono o leggono cose del tipo «cinema di parole» (come scritto sul manifesto) o, ancora peggio, «letteratura filmata» come dichiarato dalla stessa regista, a proposito del cinema. L’eco è infatti, oltre a un certo snobismo, quello di una presunta superiorità letteraria rispetto alle altre arti o di un necessario elemento letterario per garantire validità estetica a un film. Cose molto vecchie e che almeno il sottoscritto pensava presenti solo in antichissime polemiche esaurite in tempi molto lontani. Eppure in questo esordio, nel lungometraggio di Elisabetta Sgarbi (già editor, direttore editoriale Bompiani e autrice di diversi corti festivalieri in anni recenti) a cui ci si è accostati con molta diffidenza viste le premesse, non mancano le qualità e una certa suggestione. Superando un certo shock iniziale (che ha diviso in pochi minuti la platea che assisteva alla proiezione tra dormienti o uscenti dal cinema) e lo scetticismo per tutti i prodotti che esibiscono una “marcata artisticità”, qualcosa di buono, ripetiamo, si salva. La Sgarbi fa di tutto per rendersi antipatica, ma l’operazione nel complesso esprime molta sincerità e una certa originalità nel cercare (trovare?) sentieri lontani da quelli solitamente battuti.
Il film è suddiviso in tre episodi distinti, legati tra loro dall’elemento notturno. Il primo e il terzo sono due monologhi tratti da Maalouf e Kureishi (e interpretati rispettivamente da Galatea Ranzi e Anna Bonaiuto), il secondo è tratto da un racconto di Ben Jelloun e ad interpretarlo sono Toni Servillo e Laura Morante. Lo stile è volutamente teatrale: lunghissime inquadrature, pochi ma significativi movimenti di macchina e set astratti (ma suggestivi, Anna Bonaiuto recita in una cava di marmo toscana). Due gli elementi veramente notevoli. La regia attenta, anche se volutamente subordinata al testo (se no che letteratura filmata è?), esibisce uno straordinario uso delle luci ed è sorretta da attori magnifici. Emergono in particolare uno strepitoso Toni Servillo e una conturbante nel senso più vero del termine Laura Morante, nell’episodio più riuscito e convincente del trittico. L’elemento che fa naufragare tutta l’operazione è proprio la sceneggiatura. Se, come si è già accennato, il testo di Ben Jelloun si salva (comunque in extremis), quasi insopportabile è, invece, il tono da poesia trobadorica scelto da Maalouf per il primo episodio, reso ancora più pesante dalla pur notevole, ma teatralissima, recitazione di Galatea Ranzi (episodio decisivo nel causare le cadute in sonni profondi e le fughe dal cinema di cui sopra…) e nel complesso molto deludente è il testo di Kureishi dedicato all’incesto, che sulla carta (conoscendo lo scrittore e visto il tema) era quello che faceva sperare per il meglio.
Il guaio della Sgarbi è che ha subito troppo l’influenza di De Oliveira e crede di essere Carmelo Bene. Non tutto da buttare comunque. Il punto dolente rimane il testo (che viste le intenzioni non è un elemento di poco conto). Tenuto conto che i tre autori sono tutti editi dalla casa editrice diretta dalla stessa regista e che contemporaneamente all’uscita del film è stata pubblicata l’omonima raccolta, nasce spontaneo il dubbio che il criterio di selezione non sia stato solo di tipo qualitativo.
Se così fosse perché non scegliere lo splendido Nell’intimità (Intimacy) magari optare per Servillo come protagonista) sempre di Kureishi (e quindi Bompiani… ) da cui è stato tratto un film che non c’entrava per nulla? Con un testo così valido e visti gli elementi positivi di regia e recitazione, il risultato sarebbe stato di ben altro tipo. Qui il bersaglio non è sicuramente centrato.
Un’occasione mancata.
Curiosità
Notte senza fine (Pursued, Raoul Walsh, 1947) è il titolo italiano di un grande western con Robert Mitchum. Se il riferimento è casuale o no rimane un (oscuro) mistero.
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