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Occhi di rabbia

Occhi di rabbia

Una lenta carrellata all’indietro e, in pochi istanti, il primissimo piano di due occhi verdi e inquieti, lascia gradualmente spazio a volti solcati da futili sorrisi piccolo borghesi. Gli occhi appartengono a Erik Ponti e saranno per l’intero film l’immagine-guida, scelta da Hafstrom, nella quale poter leggere il disagio del ragazzo e la sua distanza dagli altri. Il regista non utilizza la ripresa in soggettiva del protagonista preferendo la riflessione di quanto accade nel suo sguardo attraversato con intensità nello stesso tempo da dolore, rabbia, dolcezza e cattiveria.
Alle frustate del patrigno seguono le sadiche angherie degli alunni più grandi del collegio, alloggiati nello stabile chiamato Olimpo: dal “processo al verme” alle sfide nel quadrato, fino all’iconografica crocifissione sul prato. Per chi è nato con l’istinto di combattere e con un senso di ingiustizia, l’obbedienza non può essere una virtù; capelli biondi, occhi verdi e giubbotto di pelle nera evocano immediatamente James Dean, citato esplicitamente in una conversazione riguardante Gioventù bruciata (Rebel without a cause, Nicholas Ray, 1955). Anche se la sua struttura fisica è di pura razza germanica, come evidenzia un professore nazista, Erik viene chiamato “selvaggio” come il titolo di un noto film dell’epoca con Marlon Brando. Notevole la prova di Marie Richardson che interpreta una madre tormentata e insicura, priva degli strumenti per reagire ai soprusi e capace solo di suonare il piano, voltando le spalle al dolore. Eccessivamente compiaciuta la recitazione di John Rabaeus, il patrigno.

La palude degli anni 50

I lunghi corridoi di legno e i vuoti saloni dalle vetrate gialle, illuminati costantemente da una luce soffusa, rappresentano il corrispondente visivo di una società immobile. Stilisticamente ed emozionalmente efficace il contrasto tra l’immutabile scenografia del collegio e il senso di tensione, di violenza che pervade l’intero film. I gilet e i golfini dai colori caldi e dalla fine manifattura finiranno, spesso, macchiati di rosso.
Negli anni 50 la patria del Welfare State considerava sconveniente essere socialdemocratici e, per Erik, come per il Liam di una pellicola di Ken Loach (Sweet sixteen, 2002), non contemplava dolci sedici anni. Per sconfiggere lo spirito di gruppo assetato di sangue non basteranno l’amicizia, lo sport, Ghandi ed Elvis, ma sarà necessario l’aiuto della classe sociale emergente, rappresentata qui dalla legge e dalla stampa. Come I 400 colpi di François Truffaut (Le quatre-cent coups, 1959), Evil è un racconto autobiografico di rabbia, solitudine e, forse, di salvezza come suggerisce la regia, che invade di luce bianca la sequenza finale dopo circa due ore di fotografia dai toni freddi e cupi.

Curiosità

Il film è tratto da un best seller, che in Svezia ha venduto oltre 2 milioni di copie. Si tratta dell’autobiografia dello scrittore Jan Guillou “Ondskan”, la cui uscita in Italia è prevista nel marzo 2005 con il titolo La fabbrica del male (edizioni Corbaccio). L’autore è conosciuto a livello internazionale per diversi libri di spionaggio da cui sono stati tratti lungometraggi e serie tv.
Regista molto noto in Svezia, Mikael Hafstrom ha diretto diversi film-tv e nel 2001 la sua prima pellicola Leva livet (trad. “Giornate come questa”) è stata candidata a diversi premi nazionali.
Oltre alla candidatura all’Oscar 2004, Evil è stato premiato in patria e in diversi Festival internazionali tra cui Miami (2004), Shanghai (2004) e Viareggio (2003)

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