Un viaggio attraverso i non-luoghi della memoria
Dopo il successo di In the mood for love (Fa yeung nin wa, 2000), presentato a Cannes, il regista Wong Kar Wai e il suo attore Tony Leung si sono fatti desiderare per ben quattro anni: tra lo stop ai lavori causato dalla Sars, i problemi relativi a un cast d’eccezione super impegnato, le incertezze, le modifiche e i ritocchi dell’ultimo minuto, 2046 arriva lo scorso maggio a Cannes 2004, anche in ritardo. Tra le polemiche e un po’ di critiche Wong se ne assume ogni responsabilità, rivelando una sorta di maniacale perfezionismo, che lo porta ad affermare: «è colpa mia, rifarei tutto sempre!».
Sembra però che questa volta non ci sia molto da cambiare e, se è vero che “il fine giustifica i mezzi”, in questo caso il prodotto finale dovrebbe giustificarne le tempistiche! Per il produttore Amedeo Pagani «è piuttosto un film sulla memoria, intesa come concetto. La memoria è 2046, è la città, è il futuro. Ma una parte del film è ambientata nel passato. Da una parte il personaggio di Leung ricorda, dall’altra scrive pensando al futuro. Il tema centrale è il tempo».
È un viaggio metaforico, introspettivo, la ricerca di un non-luogo. 2046 è l’anonima stanza dell’Oriental Hotel che alimenta le memorie e scatena la fantasia dello scrittore. Chow è ritratto più volte in un atto voyeuristico che evoca un guardare a se stesso attraverso le immagini dei propri ricordi. Sono loro che nutrono e divorano la sua immaginazione, che lo assalgono e lo risucchiano nelle spirali vorticose di un inconscio che gli fa perdere i confini con la realtà.
Ma 2046 può essere anche la fantascientifica destinazione di un misterioso treno metropolitano, che di tanto in tanto parte, ma da cui nessuno ha mai fatto ritorno. Su questo “veliero fantasma” del futuro, che erra senza trovare la sua meta, l’unico passeggero è Tak, una sorta di alter-ego di Chow. È il solo che abbia scelto di tornare indietro. Lo vediamo consumarsi lentamente nel tentativo di riappropriarsi della propria identità, mentre lacerato dalla sua umana sofferenza, riesce a far piangere anche le hostess che, nonostante siano androidi, sembrano logorarsi nel tempo, contagiate dalla forza corrosiva dei sentimenti. È una specie di interminabile pellegrinaggio attraverso un buco scintillante in cui i colori e le forme si fondono e i tempi della narrazione si confondono in un’estetica del frammento, che diviene frammentarietà della visione di postmoderna memoria. Ne nasce una sorta di canale spazio temporale che da un non-luogo dà vita ad un non-tempo. I tanti flashback che strutturano la narrazione, talvolta assumono il tono e le sembianze di presagistici flashforward. La narrazione sembra come arrestarsi, rimanendo sospesa in un non-tempo che permette al regista di consegnare al suo pubblico l’eterna valenza morale di queste immagini generate nel presente, da ricordi del passato, che inevitabilmente condizioneranno il futuro. Quasi a voler ricordare innanzitutto che la nostra identità, individuale e collettiva, è generata in un non-luogo, da un non-tempo che si chiama memoria: è come una fiamma che non può spegnersi, che trova il suo combustibile in un amore struggente che brucia i suoi protagonisti e si alimenta dei loro ricordi.
È un film che affascina e coinvolge, colpisce ed emoziona. Affascinano le sue donne, umane o androidi che siano, i preziosi costumi in cui si muovono sinuose, e il movimento sensuale dei loro tacchi, a cui l’elegante sguardo della macchina da presa dedica una feticistica attenzione. Colpiscono i colori e la profonda densità della fotografia che ben rendono l’intensità dell’atmosfera e le sensazioni dei suoi protagonisti. Coinvolge perché riesce a far leva su alcuni archetipi universali che evidentemente emozionano tanto l’Oriente quanto l’Occidente, superando ogni ipotetica difficoltà all’immedesimazione che potrebbe nascere da diversità tanto fisiche quanto socioculturali dei suoi attanti, così come del suo pubblico. Archetipi che svelano il denominatore comune di un’umanità che avverte, nel disagio della solitudine metropolitana (ben ritratto con lo skyline su cui si chiude il film), l’esigenza di raccontare per raccontarsi, per preservare e recuperare quelle vecchie memorie, che ognuno di noi conserva gelosamente dentro di sé.
«Sai come facevano gli antichi? Scalata una montagna, facevano un buco in un albero e vi sussurravano dentro i propri segreti, ricoprendolo poi con della terra, per far in modo che nessuno potesse udirli».
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