Spaghetti Management
Spaghetti Management
di Fabio Falzone – voto: 7
Era ora di aprire il diaframma su questo mondo, seguendo piste diverse da chi già si era imbattuto nel sentiero che porta la mdp negli uffici di lavoro. Il giovane regista Cappuccio lo fa con uno stile tutto suo: senza condanne o prese di posizione. Evita infatti di gettarsi a capofitto nella costruzione documentaristica di personaggi al limite del grottesco e del disumano, come la Comencini (Mobbing, 2003) e Laurent Cantet (Risorse umane, 1999); e si svincola anche da una certa moda di comunicare in maniera diretta e quasi esclusiva l’aspetto angosciante delle difficoltà lavorative, come Loach o Per Fly (L’eredità, 2003), senza nulla togliere alla pellicola danese e al regista inglese, taglienti e capaci di sfiorare i picchi della tragedia shakespeariane. Cappuccio invece opta per il registro della comicità e dell’autoironia e sembra farlo in grande scioltezza, forse perché affronta l’universo lavorativo italiano, differente per cultura e tradizione da molti altri di derivazione protestante.
Sullo sfondo c’è la globalizzazione, con un corollario di piaghe sociali da brivido: il precariato, le pensioni da fame, le leggi spietate del mercato, il fallimento societario in agguato dietro l’angolo. A fare da contrasto, in uno scenario già ben delineato, c’è un altro elemento, capace di offrire altre chiavi di lettura al film: la contrapposizione velata alla cultura nazionale francese. Un po’ per ripicca verso i cugini d’oltralpe, un po’ per sottolineare le differenze di approccio alla soluzione dei problemi, i francesi sono gli spietati manager giunti dalla sede di Parigi per salvare il distaccamento aziendale italiano. Impartiscono ordini e stabiliscono i termini, cosa che in Italia può spesso avvenire con una certa approssimazione. La cultura francese, ma lo stesso discorso vale per quella anglosassone, viene qui rappresentata come una macchina inarrestabile con obiettivi precisi, irrevocabili, ordinati gerarchicamente, da centrare senza troppi raggiri o strani accordi. Ed è proprio l’accordo, il dialogo, il compromesso, ad emergere nel film: l’arte in cui la nostra nazione giganteggia con pochi rivali al mondo, nel bene e nel male.
Veniamo al protagonista: Pressi, parole sue, nella sua vita ha avuto solo desideri e obiettivi, mai nessun progetto. La pellicola si apre e si chiude con la stessa inquadratura e con frasi che sono l’uno conferma dell’altra. Continuare a centrare i bersagli, fottendosene del resto. Questa la traccia esistenziale di Pressi, formatore aziendale di una grossa multinazionale francese, all’inizio benvoluto da tutti, che per un singulto del mercato deve trasformarsi in “killer”, eliminando un terzo del personale. E lui lo fa, senza rimorsi, senza lacrime, pronunciando a ripetizione false stime e complimenti. Riuscendo in tutto: un manager efficientissimo, dalla furbizia spietata. E la capacità di non interporre nulla ai suoi target, la compassione, l’amicizia, l’amore. Il lavoro è l’unico spazio vitale. il resto, ritagli. Un «hombre de mierda» come dice la sua donna delle pulizie. Eppure, il personaggio che filtra attraverso la direzione di Cappuccio ci fa sorridere, non riusciamo a odiarlo. Odiamo il mondo in cui naviga. Il suo è un ruolo, quello dello squalo, che lui gioca alla perfezione.
Per una volta il cinema italiano ed europeo, smentisce il luogo comune del manager lampadato ritraendolo con ironia. Un manager fuori dagli stereotipi, specchio di una realtà, quella dei dirigenti, spesso più vicina alla segregazione monastica, che non al bauscia volgare tutto villetta, figa, palestra, sauna e partitina a golf. Certo Pressi le sue fighe intorno ce le ha, ma solo per dormir loro addosso, senza il pensiero di una relazione sentimentale stabile.
Il lavoro invade la vita privata, la sfratta e s’infiltra come un acido allucinatorio nella mente e nello spirito. Le soggettive di Pressi smarrito nella notte in mezzo ai trans, in cerca di una via di fuga rimandano a un uso della mdp che smette di porsi all’esterno come osservatore oggettivo e imparziale, per documentare e condannare chi ha il coltello dalla parte del manico nella struttura lavorativa. Invita invece a perdersi nell’alienazione di chi la sera è costretto a mangiare wurstel seduto sulla tazza del cesso, col computer sulle gambe. Una realtà recintata dal mercato, che la regia di Cappuccio affronta in modo originale. Forse mancava incisività su un aspetto: maggiore insistenza sulla dimensione onirica e visionaria che l’alienazione da stress lavorativo infligge alle persone, quale che sia il ruolo o la personalità.
Ti stimo molto
di Alessandro Ragnoni – voto: 5
Convince e diverte il film di Eugenio Cappuccio che finalmente ,dopo due film costruiti a sei mani con Massimo Gaudioso e Fabio Nunziata (Il caricatore, 1996; La vita è una sola, 1999), riesce, da solista, nell’abilità di coniugare la sostanziale leggerezza narrativa con il tema pesante della precarietà del lavoro. Sensazione costante sullo sfondo è una amarezza profonda per la condizione lavorativa che inquadra l’uomo come numero, unità produttiva, riecheggiando in chiave economico-aziendale l’antico concetto del lager. Si respira un clima di competizione tra colpi bassi e scorciatoie professionali con la continua contrapposizione tra dirigenti francesi e dipendenti italiani. Tuttavia non mancano autentici squarci di ironia nella tela, solo apparentemente monotona, del metraggio. Parte del merito va a Massimo Lolli, autore dell’omonimo romanzo da cui è tratto il film, capace di cucire addosso al protagonista Marco Pressi (Giorgio Pasotti) dei dialoghi che sono autentiche chicche di cinica, tecnica bravura. I cosiddetti dialoghi-colloquio, con cui di fatto il protagonista cerca di servire, nella maniera più indolore possibile, il licenziamento ai colleghi produttivamente “deboli”, costituiscono i momenti più intensi della sceneggiatura. Del resto Pasotti, che nella recente Mostra di Venezia ha avuto il primo vero riconoscimento internazionale, si conferma uno dei migliori giovani attori italiani. Meno convincente nella parte del manager rampante, riesce a dare il meglio quando la trama diviene più introspettiva ricordando la prova di Dopo mezzanotte (Davide Ferrario, 2004). La sfida che raccoglie il suo personaggio diviene ossessione fino a consumare lentamente l’uomo e il manager.
Specchio del compromesso sono le ambientazioni. Si va dai locali asettici della multinazionale e dell’ufficio del protagonista, privi di componenti emozionali, all’appartamento sporco e trascurato che viene ad essere una sorta di ‘ritratto di Dorian Gray’, volto vero dell’annientamento. Poco incisive le trovate della colf peruviana che non manca di additarlo come «hombre de mierda» e della scappatella redentoria con la fanciulla del Camerun. In generale tutte le parti dominate dalla vita privata sono evanescenti, senza una vera e propria ragion d’essere se non quella di fare da contrappeso alla lotta diurna in azienda o di dar voce e compimento al titolo. Il «volevo solo dormirle addosso» rimane per il protagonista ultima aspettativa verso una dimensione intima che si disgrega davanti ai suoi occhi disincantati. La bravura di Pasotti è nel rendere irridente e distaccata la mimica di Pressi che guarda la sua vita andare in pezzi. L’attore riesce a infondere al personaggio una volontà pressoché stoica frutto anche della formazione di Pasotti in Estremo Oriente e di uno studio che egli fa del personaggio a partire dallo sguardo inteso come specchio dell’anima. Non manca una vena comica pienamente assecondata dal regista e inserita sapientemente in gag tra protagonista e personaggi macchietta (dal manager cinico al venditore goffo) così da strappare più di un sorriso (amaro). Infine come non citare la trovata tormentone del «ti stimo molto», la frase che il protagonista usa per congedarsi. Un motto che nasce come baluardo del successo di un’azienda e languisce poi come frase stridente e ipocrita che perde del tutto il suo significato. Chiosa perfetta di un film di elegante intrattenimento condito di riflessioni pungenti.
Curiosità
L’appartamento pulcioso di Pressi (con tutto il rispetto e la “stima” per il proprietario) è lo quello dello sceneggiatore e autore del libro da cui è stato tratto il film, Massimo Lolli. Il personaggio di Paciotti mangia spesso delle mele, gesto che faceva anche quello che interpretò in Dopo mezzanotte di Ferrario. Questo perchè, senza misurarne le conseguenze, l’attore ha trasmesso il gesto di Pressi nel film di Ferrario, pellicola uscita prima di Volevo solo dormirle addosso, ma ideata dopo.
Filmografia
•Il caricatore (1996)
•La vita è una sola (1999)
Link correlati:
• Articolo sul rapporto tra il film di Eugenio Cappuccio e il libro di Massimo Lolli
• Recensione del film Mi piace lavorare (Mobbing), di Francesca Comencini
• Recensione del film L’eredità, di Per Fly.
A cura di Fabio Falzone
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