Maneggiare con cura
La struttura è ancora quella di un viaggio, come già in Il ladro di bambini, ovvero il capolavoro che ha dato la notorietà a Gianni Amelio proiettandolo tra i grandi autori dell’ultimo decennio. Questa volta però la sfida era, almeno sulla carta, ancora più ardua: un film tratto dal romanzo di un grande scrittore basato sulla sua esperienza personale come padre di un figlio handicappato. Anche un film su commissione, proposto da Rai cinema al grande e pluripremiato autore di Lamerica e Così ridevano.
Analogamente al film del 1992 poi, il viaggio è il momento di una presa di coscienza (e di conoscenza) che un giovane adulto compie grazie al contatto con il mondo della prima adolescenza. Ma le analogie finiscono qui. Se, infatti, 12 anni fa ad Amelio interessava descrivere un processo di avvicinamento tra due mondi inizilamente lontani, ostili e reciprocamente sconosciuti, ma anche un paese che non fa da semplice sfondo a questo processo, oggi quello che interessa l’autore è raccontare una presa di coscienza dell’handicap e della paternità. Il viaggio e i luoghi attraversati diventano paesaggi interiori, funzionali metafore degli stati d’animo dei protagonisti (si veda lo splendido finale nell’estremo paesaggio norvegese).
Più che una riflessione sull’handicap, il film è però una rigorosa e complessa analisi del sentimento di paternità, scandagliato e descritto in tutte le sue fasi. In questa chiave, centrale diventa il personaggio interpretato dalla Rampling, una sorta di “Virgilio” nel viaggio di Gianni attraverso non solo le difficoltà iniziali nel rapportarsi a un ragazzo handicappato, ma ancora di più nel suo affrontare ed elaborare un lutto che risale alla nascita di Andrea per poi quindi poterlo amare come figlio. Un processo che il regista segue e racconta con il consueto rigore formale, per cui evitare anche la minima caduta (o anche semplice scivolata) nel sentimentale sembra la cosa più semplice, ovvia e naturale (quando il tema è paternità e handicap…). Privilegio e dono dei grandi.
Come sempre dei grandi è creare un film in cui il contenuto derivi anche dalla forma e che riesca a essere una riflessione formale su come il cinema possa affrontare certi temi o interrogativi. Se il tema principale è la paternità e non l’handicap, ecco che Amelio ricorre con grande consapevolezza e frequenza al fuori campo. E basti qui citare la sequenza iniziale in treno, quando il regista inquadra a lungo e con insistenza Kim Rossi Stuart prima di rivelare l’oggetto del suo sguardo: il figlio Andrea, che vede per la prima volta da quindici anni.
Prima di conquistarsi di essere insieme e a lungo in campo insieme, il viaggio è lungo. C’è tutto un sentimento che deve nascere.
Un altro tassello importante nella carriera di un autore che persegue e conferma una poetica, uno stile, una concezione del cinema che ha ancora la volontà di affrontare rigorosamente i temi più profondi per giungere all’essenza.
Una forma cinematografica di cui Amelio è oggi tra i grandi eredi (con Bertolucci e Bellocchio), ma che in Italia ha maestri importanti (dal padre Adamo di tutti, Rossellini, passando poi ad Antonioni e Pasolini, solo per citarne alcuni) e che sembra, per fortuna, continuare a germogliare (e vengono in mente Garrone e Sorrentino).
Un applauso merita la fotografia di Luca Bigazzi che continua a firmare il grande cinema autoriale italiano di oggi, anche lui degna conferma di una grande tradizione italiana (da Di Venanzo a Storaro passando per l’appena scomparso Di Palma).
Anche solo pochi minuti della performance della Rampling valgono l’intero (e comunque notevole, anche se forse non il capolavoro di cui si dice) film.
Straordinaria, anche per impatto emotivo, la sequenza dell’abbraccio padre – figlio durante gli esercizi motori di Andrea in ospedale.
Il film è solo ispirato al romanzo di Pontiggia (che è il libro che la Rampling legge nel film e che consiglia a Kim Rossi Stuart), non ne è la trasposizione cinematografica. Lo scrittore aveva comunque, poco prima di morire, approvato la sceneggiatura, ma non ha fatto in tempo a vedere il film realizzato. Puntuale quindi una dedica dopo i titoli di testa.
Curiosità: Il film è stato rifiutato all’ultima edizione del Festival di Cannes e, in concorso, alla Mostra del cinema di Venezia, è stato suo malgrado protagonista delle annose campanilistiche polemiche per il mancato massimo riconoscimento per alcuni obbligatorio e scontato: tutto già visto l’anno passato.
Il titolo secondo lo stesso Amelio esprime simbolicamente una tappa di crescita e raggiunta indipendenza.
• Vai alla precedente recensione di Le Chiavi di Casa di Giuseppe Carrieri
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