Per la fine del mondo, colori pastello
Ancora ritorna il numero tre: Jonathan il figlio, Bobby l’amico, Alice la madre, Jonathan l’omosessuale, Bobby l’ambiguo, Clare la donna, l’infanzia alla fine degli anni ’60, l’adolescenza a metà dei ’70 e l’età adulta all’inizio degli anni ’80. Tre case diverse per diversi periodi della vita, in un paese, nella grande città e in campagna, tre diversi impegni, come studente, fornaio, ristoratore. Sull’onda dell’atmosfera bruciante degli anni Settanta, si snoda una storia di crescita dove la stabilità dell’età adulta non viene mai raggiunta. Il panorama è quello totalmente contemporaneo di una società frammentata e affastellata, dove riferimenti unici e sicuri non esistono più, dove la ricerca della famiglia, della casa, del futuro, porta a soluzioni atipiche. Mayer è uno dei registi più impegnati di Brodway. Questo suo primo lavoro cinematografico lascia trasparire un interessante gusto nella scenografia e nella creazione di interni densi, che raccontano bene lo spirito di una particolare epoca e il respiro delle persone che abitano in quei luoghi.
Ma l’interesse del regista si concentra soprattutto sulla costruzione delle relazioni tra i protagonisti: il nucleo chiuso composto da una coppia viene subito smentito come modello possibile all’inizio del film, dove il piccolo Bobby, richiamato dai gemiti nella camera del fratello più grande, sorprende i due amanti. La figura del fratello di Bobby preannuncia qui la caratteristica che Bobby prenderà da giovane e da adulto: il non essere definito, sessualmente, fisicamente, mentalmente, la possibilità di trovare un posto qualsiasi dove fermarsi, l’amare senza condizioni ogni essere vivente, senza barriere o regole da seguire. La triade Bobby – Jonathan – Clare, più che un vero triangolo amoroso, diventa piuttosto l’incarnazione di un tentativo di ricreare un giardino dell’Eden all’interno dell’America.
In questo senso, il viaggio per i luoghi d’America che il film compie non è indifferente: dalla provincia fatta di case tutte uguali, di giardini e spazi aperti di una classe medio borghese, che sta lasciandosi alle spalle la propria autorità, che rovinerà nel periodo “peace&love” creato dalle nuove leve, all’alternativa e feconda Manhattan degli anni ’70, dove artisti, gay, donne erano liberi di crearsi la propria morale di esistenza, fatta di strade per nulla minacciose ma accoglienti come se veramente New York fosse stata una grande madre per tutti i giovani entusiasti di quel periodo. Poi, nell’età adulta si visitano i luoghi naturali più grandiosi dell’America, dal deserto al Grand Canyon, luoghi portatori di ampio respiro mitico, per andarsi a rifugiare nella campagna, meglio, in quello che rimane della prateria americana, luogo vergine in attesa di essere sfruttato, luogo dalle grandi possibilità, che accoglie benevolo ogni pioniero.
Ma in questi luoghi la nuova famiglia, nè matriacale né patriarcale, cerca in qualche modo di sopravvivere, ma rimanendo in bilico sul burrone, in un continuo oscillamento. I personaggi sono molto mobili, cambiano fisicamente, dai capelli ai vestiti, e non a caso è proprio la donna, Clare, a cambiare di più: incarna la cellulula impazzita, l’elemento destabilizzante che con i suoi cambiamenti opera delle trasformazioni anche su suoi compagni di vita. Il modello rischia di frantumarsi in continuazione, ma rimane accoccolato tra le braccia di un’America benevola, che assomiglia davvero a una Madre Terra. Il tentativo sperato è, forse, quello di nascondere l’inquietudine della società sotto dei colori pastello.
Curiosità
Michael Mayer ha lavorato in teatro, tra gli altri, anche con Christian Slater, Kevin Bacon, Laurence Fishburne, Laura Linney.
A cura di Francesca Bertazzoni
in sala ::