Ballare per credere
Prendete un paese di minatori dell’Inghilterra del nord sconvolto dalle tensioni e dagli scioperi di un 1984 tutt’altro che tranquillo, prendete un ragazzetto (Jamie Bell) che profuma di british dalla testa ai piedi e fategli vivere il sogno del bruco che diviene farfalla tra i muri di indifferenza di quel mondo di e ‘da grandi’ e avrete il Billy Eliot presentato (con il titolo di Dancer ) a Cannes nella sezione Quinzaine Réalisateurs.
Poco importa che ad abbattere il muro siano piroettes e arabesque la favola già funziona alla perfezione, la danza, che rivive una nuova primavera cinematografica, serve solo a sublimare l’antitesi tra la greve quotidianità e la leggerezza di un balletto. Azzeccate le figure di Mrs. Wilkinson (Julie Walters), tenace insegnante di danza, e della nonna svanita (Jean Heywood) che traghettano il protagonista attraverso situazioni che alternano introspezione, nostalgia e vocazione in un cocktail che non permette allo spettatore di abbandonare il fazzoletto.
Nonostante ciò l’impressione che coglie chi guarda non è quella di assistere a un manierismo dei sentimenti, a un esercizio, seppur bene architettato, di commozione collettiva bensì a uno scorrere naturale del pathos nella storia. Grazie a questo fatto il ritmo del metraggio, in verità piuttosto lento, viene assorbito e non risulta pesante proprio perché si vede spezzato in pillole umanamente verosimili, complete in se stesse e, cosa che non guasta, capaci di commuovere (significativo l’episodio della lettera materna). Degne di nota sono le scene collettive e quelle danzate dove la straordinaria fisicità del protagonista emerge in modo lampante, meno originali quelle a dimensione privata che attingono a un immaginario di vita familiare che sa di dejà vu.
Nel complesso una pellicola godibile e coinvolgente capace di tenere lo spettatore in bilico tra il realmente accaduto e il narrato, di sfiorare temi ‘tosti’ quali l’omosessualità e le lotte sindacali con il pregio di tenerli imbrigliati nei confini della storia orientandone gli effetti solo sul protagonista.
Cosicché calando su tutta la scena il tempo del pianoforte si finisce per ovattare lo spettatore che realizza l’esistenza del mondo esterno solo attraverso i vetri opachi della palestra in cui Billy si allena e vi sovrappone costantemente il riflesso del ragazzo danzante, a questo punto la favola ha definitivamente vinto la nostra reticenza a farci conquistare.
Se con queste premesse il finale può sembrare una caduta di tono o un completo abbandono al cliché buonista del lieto fine mi viene da pensare che dopo averci fatto piangere, ridere, inseguire un sogno fino in fondo il regista (Stephen Daldry), da uomo di teatro qual è, possa permettersi di voltarsi verso di noi e strizzare l’occhio al ‘vissero felici e contenti’, in fondo non era forse ciò che volevamo?
A cura di
in sala ::