Lucius Artorius Castus, chi era costui?
Per Hollywood in genere la Storia non è che un calderone di miti e leggende dal sapore “ufficiale”, da cui attingere a piene mani per inventarsi un’epica americana mai esistita. Ciò non sarebbe del tutto un male, se i produttori non insistessero ad attribuire alle loro marmellate pseudostoriche presunte caratteristiche di “realismo” e “accuratissima ricostruzione storica”. Lo scrittore David Franzoni ha molta esperienza in questo campo, avendo firmato la sceneggiatura del Gladiatore (Gladiator, Ridley Scott, 2000): stavolta però non c’è Ridley Scott a sostenere sulle sue larghe spalle una Storia ridicola, c’è solo il povero Antoine Fuqua (Training Day, 2001) che si barcamena tra l’epico e il tamarro senza riuscire a trovare una direzione coerente. Girato nei bellissimi panorami delle Wicklow Mountains in Irlanda, purtroppo poco visibili data la predilezione del regista per i primi piani dei suoi inespressivi personaggi, il film si propone di raccontare la vera storia di Lucius Artorius Castus e i suoi uomini, da cui sarebbero poi discese le leggende di Re Artù e dei Cavalieri della Tavola Rotonda. Non c’è Camelot, non si ricerca il Graal, Merlino è uno sciamano maneggione, poco più di una comparsa.
La trama è semplice come una favola: L. A. Castus, con i suoi sette cavalieri sarmati, combatte per Roma padrona e per conquistare il permesso di soggiorno nell’Impero, ma viene abbandonato dai Romani in fuga quando i Sassoni invadono l’Inghilterra: dovrà occuparsi lui solo, con i suoi sei uomini rimasti e l’aiuto di un pugno di hippie boscaioli, di ricacciare i Sassoni dal Vallo di Adriano. L’impresa parrebbe ardua, ma secondo la produzione è storicamente provato che gli uomini di Artù erano tritacarne umani in grado di uccidere venti Sassoni a botta, inoltre avevano a disposizione trabucchi tardomedievali e tonnellate di napalm.
Lucius Artorius, siccome ha il nome che finisce in -us, è chiaramente un romano (anche se solo per metà) e per rendere chiaro il concetto la costumista Penny Rose lo paluda con un’armatura da centurione con spazzettone sulla testa stile Caesar Palace, mentre Excalibur sembra nascere da un rapporto illegale tra una daga da legionario e uno spadone celtico. Non stupisce, dato che la stessa costumista (Evita, The Commitments), dopo aver compiuto un “meticoloso lavoro di ricostruzione storica” afferma che i cavalieri sarmati erano “delle rock star del V secolo” (sic) e li ha abbigliati di conseguenza. La casa del romano Marius Onorius è una domus pompeiana che pare rubata ad uno studio di Cinecittà e trapiantata in una brughiera senza troppe spiegazioni, mentre il Vallo di Adriano (di cui è stata costruita una sezione di 950 metri di lunghezza per 10 di altezza) sembra fatto di Lego ed è dotato di un portone automatico che si apre o si chiude a seconda del punto da cui viene inquadrato.
Non vorrei a questo punto sembrare il solito pignolo che cerca il pelo nell’uovo: intendiamoci, avrebbe potuto anche essere un buon film cavalleresco al di là delle pretese storicistiche, come lo sono stati Braveheart (id., Mel Gibson, 1995) e Il tredicesimo guerriero (The 13th Warrior, John McTiernan, 1999) ma nemmeno questo obiettivo è stato raggiunto. Quello che veramente ammazza è il ritmo, di una lentezza che forse avrebbe voluto essere definita “epica”.
I dialoghi sono surreali, specie nella scelta dei registri di linguaggio: i cavalieri si scambiano ordini in gergo da Navy Seals, litigano con battute in stile gangsta-rapper, a volte sconfinano per un attimo nel lirismo elfico alla Legolas, tutto nel giro di un’inquadratura. Ivano Marescotti (il vescovo Germanius) affianca ad una parte già traballante una parlata da presentatore televisivo, nel doppiaggio italiano impastata di romagnolo (sarà stato un antenato di papa Borgia?). Le scene d’azione sono talmente incasinate da risultare incomprensibili, i Sassoni sono un’armata Brancaleone guidata da un vecchio cui non affiderei nemmeno un esercito di Risiko, e lo dico senza essere un esperto di tattica militare. Tutto ciò ammazza non semplicemente il realismo, ma la benché minima verosimiglianza.
Completa il quadro la totale incapacità degli attori – eccetto il bravo Ray Winstone – di rendere i personaggi minimamente interessanti. Se non fossero vestiti diversamente sarebbe arduo distinguere i cavalieri l’uno dall’altro, dato che ciò che li accomuna è la medesima espressione di incazzatura eroica che non cambiano per tutto il film. Diverso è il discorso per Ginevra (Keira Knightley, La maledizione della prima luna): anche se può essere opinabile che la first lady di Camelot avesse l’abitudine di scendere in battaglia vestita come l’eroina di un manga giapponese sadomaso, spaccando a nastro le teste di cristi in armatura alti quattro volte lei, l’attrice che la impersona può contare su doti che trascendono l’arte della recitazione. Diciamo pane al pane: è una gnocca stratosferica, punto e basta, se questo vi basta per andare a vedere un film sarete contenti.
Anche lo spettacolo quindi si attesta su livelli medi, con una sola eccezione: la battaglia sul ghiaccio (i cui realizzatori occupano da soli metà dei titoli di coda), realizzata in maniera molto spettacolare, con utilizzo oculato di effetti e scene forti. Anche qui non siamo proprio nel campo del realismo ma perlomeno ci si diverte, si balza un minimo sulla sedia, insomma si fanno quelle cose che ci si aspetta di fare quando si va a vedere un film del genere. La musica è del solito Hans Zimmer (Braveheart, Titanic e altri mille), che riesce a spacciare gli stessi pezzi da anni a tutta Hollywood ma che – ammettiamolo – lo fa con molto stile, dando all’intero film un’atmosfera epica altrimenti assente.
Gli amanti dei cavalieri senza macchia e senza paura non rimarranno delusi da questo film, a patto che non si aspettino troppo; gli studiosi di storia potranno farsi due risate; in ogni caso non bisogna certo prendere sul serio Jerry Bruckheimer quando si vanta di aver “cercato ad ogni costo la veridicità storica” (sic ancora), considerato che ha già portato sullo schermo il revisionismo nauseante di Pearl Harbor ed è da tempo uso a spacciare costosissima ma redditizia spazzatura (The Rock, Armageddon).
Andateci di mercoledì, che costa meno.
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