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La dolorosa strada del perdono

La dolorosa strada del perdono

Un film profondamente religioso, ma con ampi varchi riservati anche alle riflessioni laiche. Con Stella (una Licia Maglietta da incorniciare!) che compie un viaggio mentale partendo da un ateismo di fondo, e da un odio per il marito che gli ha ucciso involontariamente il figlio Michele (interpretato da un notevolissimo Damiano Russo), per approdare ad un possibile incontro con la fede lungo la dolorosa strada del perdono.

I limpidi paesaggi del Friuli (che sembrano rievocare certe opere di Monet) attorniano la protagonista come una sorta di manto sensibile, capace di interpretare gli stati d’animo di Stella col variare delle stagioni. Quest’ultima, è l’intuizione più suggestiva e confortante della pellicola. Intuizione che la Tamaro avrebbe dovuto alimentare maggiormente, sfruttando questa sua ottima vocazione al panteismo. Da questa mancata sottolineatura si arriva alle vere e proprie note dolenti del film. Alle incongruenze, alle esagerazioni che passano dall’acquarello delle vedute naturali alla tempera forte di certi ritratti caricaturali e irrealistici. Ne fa le spese principalmente il personaggio di Fausto (ben interpretato da Urbano Barberini), marito di Stella. Un professionista così cinico, ottuso e violento da apparire un uomo dell’Ottocento, un “Padrone delle ferriere” traslato a forza in una vicenda che invece si articola nel presente. Perché questa forzatura? Me lo chiedo mentre scrivo, trovando una plausibile risposta solo nella necessità da parte delle sceneggiatrici (la stessa regista Susanna Tamaro e Roberta Mazzoni) di utilizzare l’archetipo dell’uomo rozzo e manesco d’un tempo per valorizzare la forza d’animo di Stella a varcare la porta del perdono. Se così fosse, il fine non giustifica i mezzi. In quanto il filo narrativo, sfilacciandosi, allenta man mano quasi ogni legame con le motivazioni di base. Difatti, nel corso di un medesimo flashback, si passa dal “romanzo di riflessione”, in cui Stella medita sul suo passato famigliare, al “romanzo feuilleton“ (che guarda caso nasce storicamente nel 1836) con le intemperanze nevrotiche e muscolari di Fausto.

La cifra stilistica, com’è ovvio, ne soffre. Anche se con l’ottimo personaggio di Jacques (un convincente Vincent Riotta) vi è una sorta di recupero poetico. Qui anche il montaggio si fa più attento. Il vedo non-vedo di certe inquadrature alimenta il piccolo segreto di quest’uomo. La scelta dei dettagli sulla preparazione dei colori (perché Jacques dipinge delle icone a tema religioso) è attenta e metodica come se incarnasse la biografia di un artista. A ciò vanno aggiunti i passi di persone inesistenti che Stella sente provenire dal solaio della vecchia casa dei genitori… Tutte atmosfere molto intriganti, che raccontano i personaggi con dialoghi muti ma molto, molto eloquenti. Come dire che se la Tamaro abbandonasse certe tentazioni verso il “romanzo popolare” e percorresse fino in fondo le poetica dei dettagli, di cui è maestra, avremmo una nuova autrice di notevole talento da apprezzare. Cosa che, purtroppo, non possiamo ancora dire.

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