hideout

cultura dell'immagine e della parola

Un terminal come microcosmo della società multietnica

Un terminal come microcosmo della società multietnica

Un intenso sapore da melting pot, l’insalata multietnica che negli Stati Uniti riunisce gli emigranti di svariate culture, contraddistingue il piatto principale del menu proposto da The Terminal di Steven Spielberg. Difatti, accanto al protagonista principale del film, Viktor Navorski (Tom Hanks), un turista dell’Europa dell’Est proveniente dall’immaginaria Krakozhia, intrappolato nello scalo Kennedy di New York per un golpe in atto nel suo paese che lo rende tecnicamente apolide, diversi impiegati del terminal di origine straniera lo attorniano in quella surreale, ultrasettimanale permanenza coatta all’aeroporto. Tra questi, l’impiegato ai servizi alimentari Enrique Cruz (Diego Luna) lo rifocillerà con dei pasti trafugati dai menu di prima classe per avere informazioni sull’agognata funzionaria dell’immigrazione Dolores Torres (Zoe Saldana). L’inserviente indiano Gupta (Kumar Pallana) e l’addetto ai bagagli Joe Mulroy (Chi McBride), invece, lo aiuteranno ad incontrarsi nuovamente e “casualmente” con l’affascinante hostess Amelia Warren (Catherine Zeta-Jones), che tra burrascosi voli pindarici amorosi e in aviolinea forse deciderà di avere uno “scalo tecnico” con Viktor, il quale nel frattempo oltre che alloggiarvi ha persino trovato lavoro all’interno dell’aeroporto.

Una condizione estrema, al limite del possibile (ma capitata realmente ad un rifugiato iraniano) che Spielberg non si fa sfuggire per ricostruire minuziosamente all’interno del terminal un perfetto microcosmo della società americana contemporanea con tutti i pregi e i difetti che la caratterizzano. Difetti riscontrabili più che altro negli impacci burocratici e in una tensione di fondo, divenuta cronica dopo l’11 settembre, che per Viktor si sublima drammaticamente in un secco ed emblematico: “L’America è chiusa”, stante il divieto, per motivi di sicurezza, di varcare le uscite che lo separano da New York come di tornare in patria a causa di un passaporto temporaneamente senza valore legale.

Ed è fantastico (a dir poco) Tom Hanks nel cucirsi addosso gli abiti, la mimica, il modo di deambulare, i modi verbali e le gestualità proprie di un cittadino dell’Est europeo in quella sorta di terra di nessuno che ne smarrisce le sicurezze e la stessa identità. In quella che diventa un’allegoria del sogno americano congelato dinanzi ad un semplice cancello 67, Hanks ha anche il merito di scavare dentro Viktor sino a ritrovarne la dignità di persona che non si arrende di fronte a nulla al fine di realizzare il suo piccolo sogno racchiuso in un… barattolo di noccioline. Un piccolo involucro che racchiude un ultimo grande desiderio paterno che Viktor intende assolutamente assolvere raggiungendo New York. Ci riuscirà, dopo mille incidenti di percorso, anche con l’aiuto della piccola-grande comunità multietnica impiegata nell’aeroporto. In un finale morale che ci riconcilia col mondo perché ritrova in ognuno degli impiegati (e in molti di noi) la dote migliore: la solidarietà nei confronti di chi soffre.

Curiosità : Il set del terminal JFK (a tre piani!), con una base di 5000 metri quadrati, è stato completamente costruito in un vastissimo hangar del centro aerospaziale californiano di Palmdale. Per la sua realizzazione oltre 200 addetti vi hanno lavorato per 20 settimane.

Non c'è ancora nessun commento.

Lascia un commento!

«

»