Le stagioni dell’uomo
Il cinema come esercizio spirituale zen. Kim Ki-duk abbandona i riti sessuali sadomasochistici de L’isola (Seom, 2000) e i cattivi ragazzi di Bad Guy (Nabbeun namja, 2001) per dedicasi al romanzo di formazione di un giovane monaco in un monastero galleggiante al centro di un’isola. Di nuovo il tema dell’isolamento ritorna nella cinematografia di Ki-duk, questa volta quasi a ricordare che “No man is an island”, che nessuno può vivere senza rapportarsi con il resto del mondo.
Il film è una grande metafora che descrive la crescita umana e spirituale di un uomo, dalla primavera dell’infanzia all’inverno della vecchiaia. Il tempo ciclico ottiene il suo trionfo nel momento in cui tutto ritorna come all’inizio, il bambino è diventato un vecchio monaco saggio che accoglie un giovane allievo inesperto.
Il cinema coreano, e in questo Ki-duk non fa eccezione, tende a sottolineare pesantemente il senso di colpa che i protagonisti provano nei confronti delle proprie stesse azioni. In questo film ogni scoperta del giovane monaco viene corroborata da una punizione, fisica o morale, che contribuisce a rinsaldare il proprio animo, dalle cattiverie di un bambino, come l’uccisione di una rana per un piccolo gioco sadico, punita per contrappasso con la stessa pena. Come la ranocchia è morta per il peso di un sasso legatogli al corpo dal piccolo, così egli viene costretto dal maestro a lavorare e pregare con un grosso masso legato in vita. La dottrina buddista pone infatti alla sua base il concetto di rimozione del dolore attraverso i distacco dalla vita mondana, dolore che nonostante la mancanza totale di un ambiente comune in cui vivere, è naturalmente insito nell’animo umano e tende ad essere esternato attraverso la soddisfazione dei bisogni del corpo.
La crescita del piccolo è scandita dal passare delle stagioni, meterologiche ma anche umane, in cui il suo sviluppo corrisponde a quello della natura, quasi ogni anno fosse uguale in un perenne ritorno ad una nuova primavera. Il penultimo film di Ki-duk (Samaria del 2004 è ancora inedito per l’Italia) è un film profonamente meditativo, capace di ragionare e far ragionare su elementi altamemente filosofici e poetici oltre che sulle più primitive pulsioni della fisiologia umana. Un film complesso, non facile, che attrae grazie ad una fotografia patinata e fin troppo pulita.
Primavera, estate, autunno, inverno e di nuovo primavera è un film che difficilmente potrà attrarre un grande pubblico, per la sua propensione a toni filosofici e i suoi tempi dilatati così diversi dai film d’azione hollywoodiani, ma è un film denso di grande fascino che non mancherà di colpire anche lo spettatore che casualmente vi si imbatte. La sensazione finale sarà quella di apprezzare in modo migliore la consapevolezza di essere solo un uomo finito e imperfetto immerso nello passare un tempo che scorre continuo, ciclico e che torna sempre da dove è partito.
A cura di Carlo Prevosti
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