Fuggire sull’arma del delitto
Dal regista Robert Harmon, che inaugurò il genere dei “road thrillers” nel 1986 con The Hitcher, ecco un nuovo racconto incentrato sui pericoli dell’autostrada.
La narrazione parte subito in maniera serrata: mentre scorrono i titoli di testa, assistiamo ad una narrazione per immagini dal ritmo frenetico, ottenuta mediante un montaggio epilettico dei fotogrammi. Lo spettatore viene così risucchiato in un vortice di velocità alienante, nel quale risulta difficile discernere anche i più elementari riferimenti logici.
Anche quando il racconto esce da questa fase sussultoria e inizia a prendere corpo in forme più tradizionali, la sensazione di disagio rimane e pervade il pubblico per buona parte del film. Particolarmente ben realizzate risultano le scene di inseguimento tra le vetture; qui il regista dà il meglio di sé: grazie ad un’ottima combinazione tra inquadrature ed effetti sonori (davvero ben realizzati) Harmon riesce a restituirci sensazioni incredibilmente vivide per il fastidio che provocano nel fruitore. Si potrebbe dire che il film fa lo stesso effetto di una lamiera che lacera la carne: un’immagine certamente forte, ma che inquadra in pieno le reazioni che questo thriller d’asfalto riesce a provocare.
Purtroppo, la vena di cruda e metallica violenza che tanto bene impressiona nella prima parte di questa produzione tende a scemare col passare dei minuti. Il racconto sembra piano piano rientrare sui binari della narrazione tradizionale, perdendo la capacità di disturbare lo spettatore.
La sensazione di dejà vu assale inevitabilmente; non risulta difficile prevedere come la storia andrà a concludersi e il film si rivela una di quelle produzioni dove il lieto fine è lì, pronto a sorprenderci(?), nelle sue forme più melense, prevedibili e pacchiane. Peccato. Se il regista fosse stato capace di mantenere il ritmo della vicenda serrato e palpitante come nella prima parte ci troveremmo davanti ad un ottimo thriller. Così, invece, si ha la sensazione che difficilmente questa produzione riuscirà a farsi notare all’interno del maelstrom delle creazioni cinematografiche.
Da sottolineare, però, la capacità visiva di Harmon nell’evidenziare la contrapposizione tra l’anima pura e vitale dei paesaggi e quella corrotta e turpe della tecnologia meccanica: numerose sono le inquadrature in campo largo che presentano una natura stuprata dall’avanzata violenta dell’asfalto e che ci invitano a riflettere sui pericoli connessi all’(ab)uso di quei mostri di metallo che chiamiamo automobili.
A cura di Simone Penati
in sala ::